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giovedì, Feb 13

Il coronavirus ci ha ricordato che la Cina è una dittatura



Da Wired :

Poteva essere un’occasione – certo dolorosa – di mostrarsi trasparenti a livello internazionale, invece, tra complottismi, destituzioni politiche e censure mediatiche, Pechino ha ribadito la sua natura di regime

D’improvviso, il numero di morti per il coronavirus in Cina ha fatto un balzo verso l’alto. Nella provincia di Hubei sono stati segnalati 242 decessi nel solo 12 febbraio e i casi di contagio sono stati 14.840. In realtà non c’è stato un aggravamento dell’epidemia che da ormai diverse settimane sta allarmando il mondo, l’Oms ha addirittura sottolineato che i casi sono in calo nel Paese. L’incremento numerico delle ultime ore, quello relativo ai contagi in particolare, è dato piuttosto dalla modifica dei parametri diagnostici da parte delle autorità sanitarie provinciali, che dà maggiore discrezionalità ai medici nel decidere se un paziente è infetto. Questo è stato fatto per garantire a un numero maggiore di pazienti di ricevere un trattamento adeguato, ma automaticamente solleva delle perplessità sulla veridicità dei numeri diffusi fino a ora nella terra del Dragone.

Il coronavirus sta mettendo alla prova il regime cinese. È indubbio che il governo stia utilizzando tutte le forze per gestire l’emergenza sanitaria, tra costruzione settimanale di ospedali e altre misure emergenziali che stanno consentendo al paese di andare avanti. Ma il suo modus operandi rivela tutti i punti deboli di quella che sotto molti aspetti resta una dittatura. Chi per primo aveva sollevato il problema, come il medico di Wuhan poi deceduto per la malattia, è stato silenziato per i danni di immagine che poteva creare al paese. È morto di censura, di fatto. Lo stesso bavaglio ha colpito altri suoi colleghi, così come i giornalisti che hanno provato a raccontare senza filtri l’epidemia. Di Chen Quishi, citizen journalist trasferitosi a Wuhan per coprire il tema, non si hanno notizie da diversi giorni. Intanto il governo ha ingaggiato centinaia di giornalisti da mandare nelle zone di crisi, affinché raccontino la grandezza cinese nell’affrontare un’emergenza che si vuole narrare come totalmente sotto controllo.

Anche la politica è stata colpita dalla macchina mediatica cinese. Negli ultimi giorni delle vere e proprie purghe hanno investito diversi dirigenti locali, come Jiang Chaoliang, segretario del Partito comunista cinese dell’Hebei, epicentro dell’epidemia, o Zhang Xiaoming, rimosso da direttore dell’Ufficio per gli affari di Hong Kong e Macao presso il Consiglio di Stato. Provvedimenti simili hanno colpito altri politici, in quello scaricamento di responsabilità sui funzionari locali che viene spesso utilizzato dalle autorità centrali nei momenti di difficoltà.

Tra sottostime dei dati, complottismi, destituzioni politiche e censure mediatiche, la Cina ha rivelato sì la sua grande forza nel reagire all’emergenza sanitaria, ma anche il gap democratico che si porta dietro. Il coronavirus è un dramma, ma poteva essere anche l’occasione per ricostruirsi un’immagine internazionale all’insegna della trasparenza. Nel paese si sta in effetti sollevando un coro popolare di richiesta di verità, con hashtag dedicati e inchieste giornalistiche divenute virali che sono riuscite ad aggirare la macchina censoria.

“La qualità delle informazioni diffuse riflette il rispetto che i dirigenti hanno per il diritto dei cittadini al sapere”, ha scritto la rivista cinese Caixin in un editoriale che suona come una disperata richiesta di trasparenza. Ma la sensazione è che anche questa volta le autorità centrali stiano andando per la loro, tradizionale, strada. A pagarne il prezzo sono ancora una volta i cittadini, come è stato in tutte le altre volte che la macchina propagandistica cinese si è messa in moto per tutelare la grandezza del paese.

Se oggi le cose non cambiano, è perchè quello che viene celebrato come un modello di sviluppo e di crescita non è altro che un regime, uguale in tutto e per tutto a quello del secolo scorso.

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[Fonte Wired.it]