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lunedì, Set 16

Il più grande insegnamento di Death Stranding è la pazienza: dentro e fuori i videogiochi


Il nuovo video sul gameplay di uno dei titoli più attesi di sempre ha lasciato perplessi molti giocatori, ma la colpa non è di Hideo Kojima

In occasione del Tokyo Game Show di quest’anno, Hideo Kojima in persona è salito sul palco di Sony PlayStation, deciso a mostrare al pubblico quasi un’ora di gameplay della sua attesissima nuova opera. Una premessa, tuttavia, è risuonata sull’account Twitter dello sviluppatore, o meglio una richiesta: non guardare il video. Lo sviluppatore ha chiesto al suo pubblico che, per amore verso il gioco, si evitasse qualunque tipo di spoiler, anche sulle meccaniche di base, così da non perdere quel senso di sorpresa che avrebbe poi deliziato gli utenti una volta acquistato il prodotto.

Una richiesta strana ma, pensando a Kojima, assolutamente giustificata, se si considera che, probabilmente, fosse stato per il buon Hideo questa presentazione non sarebbe nemmeno avvenuta. Eppure il video lo abbiamo visto, e come noi molti altri giocatori. Le sensazioni sono state spiazzanti, e se c’è una certezza è che Death Stranding sarà un gioco che creerà una forte divisione tra i suoi giocatori: chi lo amerà e chi, forse, lo troverà particolarmente indigesto. Il punto è che molti, guardando il video, sono rimasti perplessi dalla presentazione del gioco, in cui si è percepita una certa mancanza di ritmo, nonché un vago senso di vuoto, dato da una mappa immensa sì, ma anche largamente desolata.

La percezione in rete è che la dimostrazione del gameplay sia stata forse un po’ sottotono rispetto a quelle rocambolesche premesse che buona parte dei fan di Kojima avevano a lungo covato. Il punto non è il gioco in sé, o la sua natura, su cui potremo esprimerci solo quanto avremo l’occasione di metterci le mani sopra. La riflessione, semmai, è utile per ricalibrare il proprio metro di giudizio riguardo l’attesa verso un prodotto, ovvero quella che comunemente si definisce “hype”. Kojima è indubbiamente un personaggio eclettico e geniale, ma il beneficio del dubbio va concesso a tutti, persino a lui. La delusione che molti hanno provato deriva, semplicemente, da un’aspettativa altissima che, inevitabilmente, si è scontrata con la realtà, e badate, non si sta dicendo che Death Stranding non possa essere un grande gioco, finanche un capolavoro. Vi si vuole semplicemente far riflettere su quanto e come, oggigiorno, una certa fetta di consumatori e critici si abbandoni sempre troppo presto ad acclamazioni per partito preso.

E non lo diciamo noi, vi basta dare un’occhiata ad uno qualsiasi degli account social del game designer per rendersi conto di quanto tutto questo sia vero. Che sia una foto qualunque o una mera schermata di gioco, non si riesce proprio a trattenersi dal gridare al miracolo. Ciò detto, la cosa che più ci piaceva di Death Stranding (e che ci piace ancora oggi) è certamente la sua impostazione introspettiva, la sua volontà di prendersi del tempo, invitando il giocatore a riflettere su sé stesso e lo spazio circostante. Il titolo, da quel che intuiamo, sarà un viaggio incentrato sullo sforzo e sulla fatica, sulla necessità di conseguire un obiettivo a dir poco utopico, ma è ovvio che questa “lentezza” possa non essere gradevole per tutti, come non lo è stata – per dire – in relazione a Red Dead Redemption 2. Bellissimo sì, ma anche quello facile alla noia per molti, moltissimi giocatori.

Perché ok la filosofia, ma val sempre la pena ricordare che la miglior caratteristica di un videogame, prima ancora di qualunque premessa artistica o filosofica, dovrebbe essere una e una soltanto: farmi giocare, possibilmente con gusto. Perché se così non fosse magari Death Stranding finirà per essere un concetto bellissimo, infarcito di star del cinema, con nulla più che un buon motore grafico.

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