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mercoledì, Lug 29

Il re di Staten Island scarta la commedia e cerca invano il salto di qualità



Da Wired.it :

Annacquando il proprio potenziale di commedia in una storia più sfumata il film perde la sua forza pur supportato da una recitazione di pregio. Dal 30 luglio al cinema

Erano 5 anni che Judd Apatow non faceva un film, da Un disastro di ragazza, ed è molto strano che sia tornato al cinema dopo essersi occupato di stand-up e di una serie tv (Love) con un film così piccolo, qualcosa di al tempo stesso più ambizioso del solito e meno ingombrante rispetto ai film che aveva realizzato con attori più noti. Il re di Staten Island è tutto girato intorno a Pete Davidson, comico del Saturday Night Live, che presenta spaventose aderenze al personaggio del film. Così tanto che l’impressione è che il film sia stato ritagliato a partire da lui, trasformandolo in un personaggio da film di Apatow. Del resto non è la prima volta che nei suoi film compaiono dei comici professionisti con personaggi vagamente simili a se stessi.

La storia è infatti quella di Scott, bamboccione tutto erba e tatuaggi fatti malissimo, senza lavoro e incapace di volerne o trovarne uno, costantemente a ricasco della madre, senza molta voglia di fare, che le circostanze iniziano a spingere verso l’età adulta. Come Davidson anche il protagonista ha lievi problemi di salute mentale, come lui ha il morbo di Crohn, come lui ha perso il padre vigile del fuoco da giovane e come lui usa l’umorismo per confessare i suoi problemi invece che sfuggirli. Esiste quindi una strana backstory tra realtà e finzione che per noi è più difficile conoscere, perché Davidson non è così famoso in che tuttavia influisce nella percezione di un film che ritrae un protagonista mentre sta raccontando (dietro esile metafora) il suo attore. L’impressione tuttavia è che questo eccesso di realismo non doni al film chissà che valore aggiunto e che il problema maggiore del film sia di rinunciare ad un po’ di commedia (l’arma più forte di Apatow) per un po’ di serietà, che però non trova mai davvero.

Per fortuna ci sono i comprimari! In questo film in cui Apatow sembra voler seguire le orme di David O’Russell, il regista di Il lato positivo e American Hustle, cioè raccontare i gangli familiari e come le persone più vicine possano essere sia quelle più nocive che le più importanti, il cast di supporto fa un lavoro eccezionale. A partire da Marisa Tomei, madre del protagonista, amorevole ma dura al tempo stesso, capace di cambiare più volte idea e atteggiamento lungo il film senza perdere in coerenza, fino a Bel Powley, straordinaria fragile coatta con la passione per Staten Island, e al più bravo di tutti Bill Burr, nuovo compagno della madre subito malvoluto dal protagonista e in grado di essere odioso, fastidioso e amabile a seconda delle situazioni. Loro animano il film creando il mondo con cui si scontra Scott nel suo tentativo di non diventare adulto.

Del resto nei personaggi di Judd Apatow c’è sempre un non raccontato che si portano appresso, li troviamo sempre già in difetto, non cresciuti. Ed è il loro fascino. Steve Carell in 40 anni vergine è il modello più esplicito e dichiarato ma tutti, da Molto incinta a Funny People a Questi sono i 40, devono ancora compiere un passo verso l’età adulta anche se hanno superato da parecchio il momento canonico in cui andrebbe fatto e sono costretti a correre per recuperare il resto della società e dei loro coetanei. In Il re di Staten Island è il peso della morte del padre ad ancorare Scott ad una vita di ironia e erba che ammortizza i problemi e li rimanda. Di questi personaggi Apatow è bravissimo a raccontare il dramma tramite il ridicolo, quel confine lungo il quale essere più immaturi degli altri è fonte di ironia, fa ridere, rende assurdi in modo mai piacevole. Poi dietro quell’assurdo di cui ridiamo a primo impatto c’è del dolore e ci sono problemi che arrivano ad un secondo impatto. I film migliori di Judd Apatow usano quella risata iniziale, qui invece marginalizza la commedia, la riduce, e cerca la strada più seria trovando un po’ di luce solo nei comprimari.

Di tutto questo sfoggio di sentimenti, ben recitati, il film fa purtroppo molto poco. Ha l’abilità di disegnare tutto il cast come fa David O’Russell, facendoli sembrare tutti potenziali protagonisti di una storia, complessi e pieni di contraddizioni coerenti, ma poi rinuncia alle vette di melodramma di O’Russell e anzi cerca uno stile minimale e indie che gli si ritorce contro. Alla fine non ha né la forza dei grandi sentimenti né la poetica di quelli piccoli. Anche un’idea molto bella come quella della scoperta da parte di Scott del vero carattere del padre, diverso da quel che immaginava, e del contrasto che si crea tra i due a partire dalla droga usata, sembra sprecata. Scott è il tipico ragazzo rilassato e rallentato dall’erba, mentre il padre era il più cocainomane della sua caserma di vigili del fuoco. Questa poteva essere una grande idea ma invece è solo un dettaglio come altri.

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[Fonte Wired.it]