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martedì, Dic 31

Il reddito di cittadinanza è il fallimento dell’anno


Distribuisce sussidi a una parte fragile della società, ma non onora nessuno degli obiettivi per cui era stato progettato: e chi si oppone alla sua revisione ne è il primo nemico

Giuseppe Conte e Luigi Di Maio alla presentazione del Reddito di cittadinanza il 4 febbraio 2019 (foto: Palazzo Chigi/Filippo Attili/LaPresse)

Successo o fallimento? Se lo si inquadra dal punto di vista del sollievo fornito a più della maggioranza delle famiglie in povertà assoluta, può essere considerato un successo; da ogni altra angolazione, però, il reddito di cittadinanza – che ora torna al centro del dibattito politico per una possibile revisione, alla quale ovviamente Luigi Di Maio si oppone con tutte le forze – è un fallimento. Probabilmente il fallimento dell’anno. Proprio perché contiene in sé l’illusione del successo, ma si è rivelato una misura ben lontana dagli obiettivi per cui era stata progettata. Se poi si riconoscesse che si tratta di uno strumento di assistenzialismo come un altro, si potrebbe anche chiudere qui ogni valutazione.

Secondo i numeri riportati da Repubblica, a beneficiare del Rdc è oltre un milione di nuclei famigliari, per un totale di 2,5 milioni di persone – il 76% della platea potenziale stimata dal precedente governo – e la ricarica media della carta per gli acquisti è di 484 euro al mese. “In otto mesi abbiamo il 60% in meno di povertà” ha spiegato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte nei giorni scorsi: come se la povertà fosse dei chili di troppo o, non so, tonnellate di formaggio. Quantificabili, stimabili e misurabili con tale semplicità.

Purtroppo non è così, e c’è una ragione molto chiara alla base: non bastano i (pochi) soldi. Al netto che i beneficiari possano aver colmato la distanza fra i propri redditi troppo bassi e i famigerati (e già vetusti) 780 euro al mese stabiliti dall’Unione Europea, il piano del reddito di cittadinanza – per cui sono stati assunti a tamburo battente e fra mille pasticci i 2.366 navigator, esclusi quelli campani finiti in un limbo – prevedeva più fasi. Oltre alla prima, che è in sostanza un allargamento del precedente Rei, il reddito di inclusione lanciato sotto il governo Gentiloni, non c’è traccia delle successive. E anche chi difende la misura dovrebbe prendere atto di questo fallimento strategico, mostruoso per certi versi, che suggerirebbe di rimettere mano – e presto – a quello strumento.

Sul primo aspetto, l’abbiamo detto: il reddito di cittadinanza funziona nella misura in cui distribuisce denaro in 891mila casi appunto come reddito (assegno medio 522 euro) e in 124mila come pensione di cittadinanza (219 euro). Ma funziona è il verbo sbagliato: una misura inizialmente di sostegno risulta efficace se nel medio-lungo periodo riesce a innescare una dinamica virtuosa. Cioè se quel monte di beneficiari inizia a scendere, perché le famose politiche attive del lavoro danno i loro frutti.

Fermandoci un attimo, ci sarebbe da dire qualcosa in più anche su questo primo stadio: il reddito raggiunge solo il 36% dei nuclei con figli minori, quelli più a rischio, è fortemente schiacciato sui single (39% dei beneficiari), i nuclei più numerosi con bambini percepiscono cifre simili a quelli con meno persone senza minori, perché la scala di equivalenza è fortemente contenuta. I disabili sono solo il 21%, perché spesso il loro Isee sballa a causa della convivenza (forzosa) con un famigliare, nonostante lo stato di bisogno sia evidente, e tante famiglie straniere in stato di necessità sono tagliate fuori. Insomma: funziona davvero, questa prima fase? Rimangono forti dubbi su una bilanciata capacità di distribuzione.

Sul resto il disastro è evidente: un motore mai avviato, un provvedimento che fornisce un qualche tipo di reddito (ma non è tale, è un sussidio) mentre tradisce proprio il carattere profondo della cittadinanza. E non poteva che finire così. Il punto è che chi non lo riconosce rischia di buttare con la propria cecità quanto di buono può esserci nel sussidio.

L’avevamo spiegato più volte, che quel “diritto al lavoro” che dà il nome alla legge sarebbe rimasto a lungo un’illusione ottica. Perché i centri per l’impiego non funzionano, danno lavoro solo a chi ci lavora, perché gli ostacoli nello scambio dei dati fra i diversi enti coinvolti – vedi alla voce Piano nazionale innovazione – sono enormi e perché si è scelto di partire prima con l’erogazione e poi di mettere in moto la claudicante ossatura dei navigator.

C’era inoltre un macroscopico errore di prospettiva: l’evidente sovrastima di chi sarebbe stato pronto a lavorare. Di quei 2,5 milioni, dice l’Anpal del mago del Mississippi Mimmo Parisi, sono circa 791.351 quelli in grado di lavorare, pronti cioè ad assumere un impiego dall’oggi al domani. Di questi, solo 423mila sono stati contattati dai centri per l’impiego; in 332mila hanno sostenuto un colloquio con il navigator di turno e appena 220mila hanno sottoscritto il Patto di servizio (senza il quale, in teoria, non si dovrebbe aver diritto al reddito). Alla fine, da settembre a oggi, il lavoro è arrivato solo per 28.763 persone, la stragrande maggioranza con contratto a termine: gente dunque che tornerà a percepire il reddito, il 18% con un accordo stabile e per il resto con apprendistati e tirocini. I conti sono presto fatti: 29mila occupati su 791mila occupabili, il 3,6%. E così si torna alla domanda: il tempo è una variabile centrale, ma tutto questo può considerarsi un epilogo positivo? Senz’altro no (e in questa sede non vogliamo parlare di dichiarazioni mendaci e trucchetti assortiti).

Primo, perché il lavoro non si crea con i navigator né con le buone intenzioni, ma con un sistema che funziona, attraendo investimenti e dunque lavorando su altri fronti, dalla produttività che ristagna da anni alla fiscalità. Secondo, perché mentre ha un qualche effetto sulla povertà il Rdc non si fa sentire in alcun modo su consumi, Pil e occupazione. Anzi, come ha spiegato il recente rapporto del Cnel sul mercato del lavoro il provvedimento non incentiva i disoccupati a cercare un impiego, potrebbe creare disparità fra tipologie diverse di persone in cerca di occupazione, per esempio con chi percepisce l’indennità Naspi che non dà diritto a sgravi in caso di assunzione, non ha alcun effetto congiunturale sul Pil, pecca di paternalismo nei confronti dei beneficiari e penalizza le famiglie numerose. Il reddito è da rivedere, eccome. E chi si oppone pregiudizialmente alla sua revisione ne è il primo nemico.

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