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mercoledì, Lug 07

Il regista che racconta la vita dei gamer: intervista ad Alessandro Redaelli


Il film “Game of The Year-The Movie”, vincitore del Biografilm Festival 2021 di Bologna, segue le vite di dieci nomi nel mondo dei videogame: pro-gamer e aspiranti tali, content creator, streamer, youtuber. Adulti, bambini, donne, uomini. Redaelli: “È la storia di gente che cerca di farcela”. Punti forti e criticità di un’industria in continua crescita, tra stereotipi,concezione d’arte, sessismo e influencer della community

L’industria mondiale dei videogame – dati Marketwatch – ha fatturato 180 miliardi di euro nel 2020. Tre volte musica e cinema. In l’IIDEA – Italian Interactive Digital Entertainment Association – riporta che il mercato lo scorso anno è cresciuto del 21,9% rispetto al 2019, con un giro di affari di oltre 2 miliardi di euro. Complice il lockdown per l’emergenza Covid-19, ma il settore era già in crescita da anni. Dietro ai numeri, ci sono codici che diventano immagini, equazioni, fiere, schede video. Dietro ancora, chi ci lavora. Il regista Alessandro Redaelli ha seguito per 18 mesi dieci personaggi di questo universo, tra carriera e vita privata: giocatori professionisti, youtuber, streamer, designer, content creator. Ne è nato “Game of The Year-The Movie”, documentario vincitore della 17esima edizione del Biografilm Festival di Bologna, rassegna dedicata alle biografie. Sette capitoli, ognuno dal titolo di un videogioco, il film è prodotto da Davide Ferrazza e scritto in montaggio da Redaelli, Daniele Fagone e Ruggero Melis, sotto la casa di produzione Withstand Film. La tecnica di regia è quella del documentario d’osservazione, dove il regista non interagisce mai con la situazione che sta riprendendo. Ne abbiamo parlato con Redaelli.

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I personaggi del film sono molto diversi. Il campione 17enne, lo youtuber con centinaia di migliaia di iscritti al suo canale. Ma anche l’autista di autobus di Varese che sogna una carriera. Come li avete selezionati?

 

Li abbiamo cercati su piattaforme come Twitch e YouTube e alle fiere di settore. Ne abbiamo selezionati 150, ridotti poi a 20. Qualcuno è stato abbandonato durante le riprese. Le linee narrative sono in contrapposizione: Reynor, il giovane campione di e-sports, e quello che vorrebbe esserlo, lo sviluppatore che punta sulla filosofia e quello che guarda al divertimento puro senza narrativa. Parliamo del film come di una produzione sui videogiochi. In realtà è la storia di una generazione che cerca di farcela. Le sfide sono le stesse di chi è fuori dal gaming. Volevamo che gli spettatori si immedesimassero nei protagonisti, per questo chi non è famoso ha più spazio in termini di tempo.

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Il film si allontana dall’approccio didattico di molte produzioni sui videogame. Vi siete ispirati a qualche titolo estero?

 

Di solito di videogiochi si parla in modo paternalistico, incolpandoli di qualche motivo per la deriva delle nuove generazioni. Oppure in modo celebrativo, con poca critica. C’è “Indie-Game the movie, un buon racconto sull’industria indipendente della programmazione ma con poca struttura cinematografica. Abbiamo provato a esplorare un nuovo linguaggio. Ci siamo chiesti: perché non esiste un documentario italiano che parli di questo? Il videogioco è ormai un mezzo riconosciuto e legittimato.

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Nel film sembra tornare spesso il sentimento di speranza verso il futuro. Ma anche quello della sofferenza: si parla di salute mentale, di tempo e di soldi spesi per seguire una carriera. È una sensazione che avete avuto durante le riprese?

 

È così. La speranza accomuna tutti. Il film ha tre finali: una storia che finisce bene, una che finisce male, una che non ha una direzione. Questo era importante per noi. Volevamo dare gli elementi allo spettatore per farsi un’idea su questo mondo, nel bene e nel male.

Negli ultimi anni piattaforme di livestreaming come Twitch si sono evolute, sempre più persone sono connesse. Questo può aver fatto crescere l’economia legata al gaming?

 

Il presupposto è che per giocare si spende. Costa la console, costano i videogiochi, alcuni vanno dai 60 agli 80 euro. È vero: l’industria fattura più di tutte, ma costa di più. Twitch ha permesso a più persone di fruirne, ha democratizzato il linguaggio dei videogame. È anche vero che chi guarda questi contenuti è appassionato, non credo sia aumentato il numero dei gamer. Il bacino di utenti è già molto alto: il 38% degli italiani tra i 6 e i 64 anni ha giocato nell’ultimo anno. Twitch nasce come piattaforma per gamer ma sta spingendo su contenuti più mainstream. Ora ci sono anche Bobo Vieri e Alessandro Cattelan.

Alcuni personaggi cercano totale libertà espressiva nel lavoro. Altri parlano di guadagni. Anche alti: 30mila dollari a torneo, 10mila euro al mese per uno youtuber. Per le generazioni più giovani, può essere un motivo per decidere di entrare in questo mondo?

 

Rispetto a 20 anni fa sì. Oggi qualche genitore inizia a riconoscere che giocare per professione è una carriera. Dipende dal contesto sociale, in Italia ancora non tutti lo accetterebbero. È simile a sognare di essere un calciatore. Puoi diventare milionario, ma ci riesce uno su un milione. È poi una strada che ora apre possibilità professionali che non esistevano. Se non riesci a farlo, puoi fare il commentatore o lavorare su Twitch.

In una scena i fan di Sabaku no Maiku, youtuber con 246mila iscritti al suo canale, gli chiedono autografi o anche solo un abbraccio. Chi, come lui, ha fatto il salto verso il mondo dei grandi numeri, può essere considerato come l’influencer di un pubblico di nicchia?

 

Nomi come Sabaku per la community sono icone. Il loro valore è più forte di quello degli influencer di Instagram. Li puoi guardare per sette ore di fila, tutti i giorni. Muovono gli appassionati anche sul mercato dei videogame. A differenza di influencer mainstream, è chiaro che non hanno un valore riconosciuto da aziende che scindono dal videogioco: 10mila spettatori in diretta possono essere tantissimi in questo mondo, ma meno di un programma tv in seconda serata. In pochi hanno fatto il salto. Ad esempio Pow3r, streamer di Fortnite, che ha avuto un contratto con Adidas.

Per il pubblico generalista esiste ancora lo stereotipo del gamer, occhiali spessi e chiuso in camera a giocare. Nel film le personalità differenti sembrano smentirlo.

 

Volevamo far vedere che gli appassionati di videogiochi sono persone comuni, come chi segue il calcio o la cucina. Lo stereotipo aveva senso negli anni ’80, quando per approcciarti a un gioco bisognava saper leggere un codice. Oggi basta avere un’app sul telefono.

Nel documentario si parla del videogioco come di un’arte, un mezzo espressivo per raccontare una storia o la realtà. Questo è entrato nell’immaginario comune?

 

Non in Italia. Non solo per il pubblico generalista ma anche per gli stessi gamer. Alle fiere chiedevamo ai visitatori se i giochi per loro fossero arte. Dicevano che sono un passatempo, e magari erano vestiti come il personaggio di un videogioco. Chiedevamo se un videogioco può essere politico, come qualsiasi arte o racconto. Molti rispondevano di no.

La maggior parte dei personaggi sono uomini. La community dei gamer viene spesso considerata sessista. Lo avete riscontrato?

 

Sì. Precisiamo: non vale per tutti, ma nel pubblico medio c’è molto sessismo. Abbiamo trovato anche più razzismo e omofobia di quanto ci aspettassimo. È strano. Se si pensa all’immaginario dei giochi giapponesi, ad esempio, l’ambito è molto libero e queer. Forse perché molti giocatori sono giovani e ingenui, senza giustificarli. Il 40% delle donne che gioca online nasconde il proprio sesso per paura di molestie. Nella scelta dei personaggi volevamo avere un bilanciamento anche di genere. È stato difficile trovare figure femminili che facciano, ad esempio, game design, ma molte donne sono nella programmazione o nel giornalismo di settore.



fonte : skytg24