Seleziona una pagina
giovedì, Ott 03

Il sindaco del rione Sanità, la Napoli di De Filippo incontra Gomorra


L’adattamento per il grande schermo della celebre commedia cerca di lasciarsi dietro sia l’impostazione teatrale, sia lo spirito di quel tempo. Ma non sempre gli riesce

L’elemento che più salta all’occhio di questa versione de Il sindaco del rione Sanità (commedia in tre atti, scritta da Eduardo De Filippo) è il suo essere stato attualizzato assecondando estetica, sound e look di Gomorra – La serie. Mario Martone da tantissimo tempo lavora su Napoli, sulla città, sui napoletani, sul napoletano come lingua e su un racconto per il grande schermo della cultura specifica napoletana (anche il suo Il giovane favoloso, incentrato su Leopardi viveva davvero nella parte napoletana). Ora prende un’opera di De Filippo che lui stesso ha portato già a teatro e ne trae un versione per il cinema.

Come è giusto che sia qualcosa l’ha cambiata, sono passati quasi sessant’anni dalla prima rappresentazione e il mondo, specialmente quello della malavita, è cambiato, come del resto è cambiato il rapporto tra Napoli e il resto del Paese, tra Napoli e la modernità. Tra questi cambiamenti non rientra il testo ovviamente, e si sente. Nonostante il forte lavoro di modernizzazione Il sindaco del rione Sanità rimane ancorato ad una visione di mondo antica, non che sia un difetto in sé, lo diventa semmai quando il mondo in cui è ambientato antico non è più, anzi. Martone ha giustamente il terrore di fare teatro filmato e crea una dimensione filmica iperrealistica, che asseconda i toni della serie Gomorra quanto a moda, taglio di capelli, linguaggio e accenti dei personaggi ma poi cerca anche dei colori esagerati nei costumi. Vuole avere un po’ di tutto e stranamente il mix gli riesce.

La sensazione è sempre di essere davanti a qualcosa che mescola elementi contrastanti, forze al lavoro che spingono in direzioni differenti, una disomogeneità che non sempre funziona ma che quando lo fa ci riesce appoggiandosi sugli attori. È innanzitutto Francesco Di Leva nei panni del protagonista a reggere molte scene. Non solo è uno dei pochi attori che riesca a non essere mai teatrale (cosa che ad esempio non avviene con Roberto De Francesco, il dottore, che sembra davvero stare su un palco) ma dal teatro prende la parte migliore, un’energia che funziona moltissimo anche attraverso l’obiettivo della videocamera. Di Leva non ha solo l’autorità del sindaco ma anche una furia negli occhi e un fuoco dentro che lo fanno apparire quasi idealista.

Così nonostante tempi e ritmi non appartengano di certo al cinema di oggi, proprio gli attori donano a Il sindaco del rione Sanità afflato e intensità necessari a non far stonare il contrasto tra un testo e una visione di mondo non proprio moderni e i costumi invece modernissimi. In quei momenti davvero Martone e i suoi attori leggono De Filippo estraendo il succo di ciò che lo rende moderno e facendone una versione propria, necessariamente diversa ma interessante. In quei momenti questo film ha qualcosa da dire di ulteriore rispetto al contenuto della commedia, qualcosa proprio sulla commedia stessa.

Purtroppo è nel finale che i nodi cominciano a venire al pettine. Il sindaco del rione è un malavitoso che la commedia descrive come la parte in fondo buona e benevola della malavita. Ha i suoi trascorsi, ha ucciso, ma fa di tutto per risolvere problemi, tenere famiglie unite e, al netto di un carattere iroso che pretende rispetto, vuole lasciare un segno positivo. Difficile, oggi, in un’epoca in cui la rappresentazione della malavita non ha questo livello di astrazione ma è più gretta e realistica, accettare che il film lo presenti come una figura positiva (dopo che si dice felice di aver ucciso e minacciato). Come del resto è difficile accettare la sua scelta finale, visto che in questa versione non è anziano come in quella di De Filippo.

È tuttavia proprio l’indubbia bontà del lavoro fatto che fa chiedere se non sia allora impossibile trasporre una commedia di De Filippo al cinema, oggi, modernizzando l’ambientazione ma senza cambiarne il testo. Viene da chiedersi se quel mondo teatrale, che era un’astrazione del mondo reale dell’epoca, non sia così fuori dal tempo da non entrare nei costumi moderni. Perché anche un attore sopraffino come Massimiliano Gallo (nei panni di Arturo Santaniello), incapace di suonare stonato, in certi momenti fatica a reggere il passo di una messa in scena che, invece di fondare un look per la Napoli malavitosa moderna, lo pesca dalla serialità televisiva sperando di trovare lì il feeling contemporaneo che cerca.

Potrebbe interessarti anche





Source link