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mercoledì, Mag 05

Il “tecno-nazionalismo” dell’India è solo l’inizio della guerra tra social network e stati



Da Wired.it :

Nei giorni più difficile della pandemia il governo di Narendra Modi ha chiesto (e ottenuto) la rimozione dei contenuti “scomodi” su Facebook e Twitter. L’opposizione è stata messa a tacere, e può essere solo il primo di una lunga serie di casi simili

In India scarseggiano i letti d’ospedale, l’ossigeno per le terapie intensive, i medicinali utili a trattare i sintomi di Covid-19. I nuovi casi sono centinaia di migliaia ogni giorno, e una comunicazione istituzionale mal organizzata porta tantissimi a recarsi all’ospedale anche quando potrebbero ottenere cure adeguate a casa. Sopraffatti dall’enorme numero di morti, alcuni cimiteri e crematori nelle città più colpite si trovano costretti a bruciare i corpi in grandi pire comuni, negando alle famiglie la possibilità di assistere alle cerimonie individuali che fanno parte della religione indù. Diversi paesi si sono organizzati per inviare attrezzature mediche, ossigeno e vaccini, ma ci vorranno quantomeno settimane prima che la crisi rientri.

Nel frattempo, i social network fungono da pericolanti ultime spiagge a cui le persone disperate fanno appello: Facebook, WhatsApp e Twitter sono diventati centrali per creare reti di mutuo soccorso in grado di fornire rapidamente soluzioni a problemi che il governo non è riuscito a risolvere.

È nel pieno di questa catastrofe umanitaria che il governo di Narendra Modi ha deciso di chiedere a Twitter, Facebook e Instagram di rimuovere un centinaio di post che, a suo dire, “potrebbero incitare al panico, utilizzare immagini fuori contesto e ostacolare la risposta  governativa alla pandemia”. Secondo Lumen, un database dell’Università di Harvard che raccoglie i post che vengono rimossi dalle piattaforme social per ragioni legali o per ordini di un governo, Twitter ha eliminato 52 tweet scritti da politici d’opposizione e figure del mondo dello spettacolo che criticavano Modi per la gestione della crisi in corso. Più o meno nello stesso lasso di tempo, anche Facebook ha nascosto i post sotto l’hashtag #ResignModi (#ModiDimettiti), tornando poi sui suoi passi e definendolo un errore.

Un portavoce di Twitter ha invece confermato quanto successo sulla propria piattaforma, spiegando che quando la compagnia riceve una richiesta legale valida la esamina in base alle proprie regole e alle leggi locali: se il contenuto viola i termini d’uso viene rimosso dal servizio, se invece è illegale in una particolare giurisdizione ma non viola le regole della piattaforma, l’accesso al contenuto viene vietato soltanto nello specifico paese. Tra i tweet a cui gli utenti indiani non possono più accedere su richiesta del governo c’è un post di Moloy Ghatak, un ministro dello Stato del Bengala Occidentale: “L’India non perdonerà mai il primo ministro @narendramodi per aver sottovalutato la situazione nel paese e aver lasciato così tante persone morire di mala gestione”.

Insomma, il governo indiano sta letteralmente sopprimendo le critiche dell’opposizione, appellandosi alla sezione 69A del controverso Information Technology Act, che permette alle istituzioni di far rimuovere dalla rete materiale che “mette in pericolo la sicurezza nazionale”. Lo stesso pretesto era stato già utilizzato per intimidire Twitter a inizio anno, quando Nuova Delhi aveva minacciato di incarcerarne i dipendenti in caso la compagnia si fosse rifiutata di rimuovere contenuti riguardanti le proteste dei contadini che secondo il governo Modi rappresentavano minacce alla sicurezza nazionale. Tra gli account sospesi all’epoca c’era anche quello della rivista indipendente The Caravan, che aveva pubblicato dei reportage dalle manifestazioni degli agricoltori.

Il pretesto delle fake news

In una nota, il governo ha affermato che l’intenzione non era quella di censurare le critiche alla gestione governativa della crisi, ma di cancellare le immagini che “creavano panico sul Covid-19 in India usando fotografie e immagini vecchie, non correlate alla situazione o fuori contesto”. Se effettivamente almeno una delle foto circolate in questi giorni sui social media mostra delle pire funebri risalenti al 2012, sono moltissime quelle condivise da testate internazionali estremamente affidabili che mostrano come la situazione in India sia drammatica, ed è evidente che nel caso di diversi tweet scritti da membri dell’opposizione in questi giorni non possa essere il timore della disinformazione a motivare la censura governativa.

Sono tantissimi i governi – più, ma molto spesso meno, democratici – che negli ultimi anni hanno approfittato della retorica delle fake news per passare leggi che permettano loro di avere un maggior controllo su ciò che viene detto riguardo il proprio paese sui social network. Il rinomato Poynter Institute for Media Studies tiene una lista aggiornata in merito: leggendola, ci si rende presto conto che, per ogni governo che cerca di passare una legge per limitare la disinformazione online, ce n’è un altro che sfrutta questa preoccupazione in cattiva fede, come pretesto per imbavagliare giornalisti ed opposizione.

I social network americani, le cui identità sono state forgiate durante la primavera araba, hanno costruito un apparato legale per combattere le richieste di rimozione da parte dei governi e sostenere la libertà di espressione”, riassume il giornalista Casey Newton nell’analizzare il più recente capitolo dello scontro tra Nuova Delhi e la Silicon Valley. Se i governi ci hanno messo un po’ a rendersi conto dell’immenso potere di internet, ora stanno preparando una controffensiva massiccia. E l’India, che già l’anno scorso ha completamente bandito TikTok dal proprio paese e minaccia di fare lo stesso con le altre piattaforme, da questo punto di vista “sta superando forse qualsiasi altro governo democraticamente eletto”, nota Newton.

Forte del suo immenso mercato interno – quasi 1,4 miliardi di abitanti sono un numero impressionante di potenziali utenti – l’India non si fa allora alcuno scrupolo a proseguire con la sua politica spiccatamente tecnonazionalista e scommette che le piattaforme americane continueranno a piegarsi alle sue richieste.

L’alternativa, che Nuova Delhi non sembra disdegnare, è quella di fare un ulteriore passo verso il cosiddetto splinternet: una versione del world wide web frammentata in mille pezzi, dove alle persone viene impedito di accedere a intere parti del web in base alla legislazione nazionale. Dove, insomma, il sogno del web aperto a tutti e della libera circolazione delle informazioni viene definitivamente infranto contro gli interessi dei singoli governi.

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[Fonte Wired.it]