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Impronte digitali, come si rilevano e quanto possono rimanere su una superficie

da | Mag 21, 2025 | Tecnologia


Da una bottiglia a una pila di fogli di carta, fino all’arma del delitto. In una scena del crimine, su molti oggetti si possono rilevare le famose impronte digitali che servono per identificare una persona, appunto il presunto autore del reato. Ma cosa sono esattamente, come fa la polizia scientifica a rilevarle e quanto tempo possono persistere su una superficie?

Cosa sono le impronte digitali

Essenzialmente le impronte digitali sono le tracce che lasciano i solchi, i dermatoglifi, ossia l’insieme di creste e valli cutanei, presenti sui polpastrelli delle mani, che vengono utilizzate come mezzo di riconoscimento e di identificazione personale. Questo perché le impronte digitali sono immutabili, ossia il modello delle linee tendenzialmente non cambia per tutta la vita, e uniche per ogni individuo (anche se va precisato che ciò non è mai stato dimostrato scientificamente ma solo su dati empirici). Più nel dettaglio, a produrre le “ditate”, ossia a depositarsi sulle superfici toccate dalle dita è il nostro sudore, costituito per il 98% di acqua, per l’1% di costituenti organici e per l’1% di sali inorganici e secreto dalle ghiandole sulla punta delle dita. “Il deposito è in forma di contorni (ridge patterns) che sono l’immagine dei disegni delle creste sulla pelle delle dita”, precisano dall’Università di Genova. “I disegni formati dalle impronte digitali ricadono in tre categorie distinte, chiamate in inglese: arches, loops, e whorls”. A caratterizzare le impronte digitali ci sono anche le minuzie, determinate da biforcazioni e terminazioni, che sono “molto importanti per la discriminazione delle impronte, e pertanto vengono usate nella maggior parte dei sistemi di confronto automatico”.

Come si rilevano

Durante un’indagine, la polizia scientifica si può trovare di fronte a tre diverse tipologie di impronte digitali: quelle visibili, dovute al contatto di mani sporche su superfici pulite o viceversa; quelle modellate, dovute al contatto delle mani con sostanze malleabili, come la cera o la colla. Entrambe possono essere quindi facilmente fotografate e confrontate con quelle disponibili in archivio. Le più complesse da analizzare, invece, sono quelle della terza tipologia, ossia le latenti. Si tratta, infatti, di impronte digitali invisibili, prodotte da una sostanza rilasciata dai pori della pelle e costituita da acqua, materiale sebaceo, acidi, calcio, fosfati. Per rilevarle, quindi, si deve creare un contrasto tra le linee digitali e la superficie. “Il metodo tradizionale consiste nello spargere con un pennello il cosiddetto grigio-argento, polvere di alluminio e additivi (che si deposita sulle linee papillari) dove si presume sia l’impronta. Se c’è, si asporta con nastro adesivo nero”, spiegano gli esperti. “Se la superficie è porosa (carta, legno grezzo), si usano reagenti chimici (ninidrina, violetto di genziana), che fanno risaltare le linee. Ultimo metodo è quello fisico, per evaporazione metallica in alto vuoto, e si usa, in genere, per superfici di plastica. In laboratorio, l’oggetto viene messo in una campana sotto vuoto. Qui si provoca l’evaporazione di una sostanza metallica, che poi si deposita uniformemente sul reperto, evidenziando le impronte”. C’è poi la luce laser che può essere applicata ad esempio sulle maniglie su un reperto precedentemente trattato con la ninidrina.

Qualità e tempo

La qualità delle impronte digitali, tuttavia, dipende da diversi fattori. Per esempio dalle condizioni psicofisiche della persona, o più precisamente dalla sudorazione. Ma anche dalle condizioni atmosferiche e ambientali e dalla superficie. “Le migliori sono quelle levigate come vetro, ceramica, metalli verniciati, mobili”, spiegano gli esperti. Anche la durata delle impronte digitali su un oggetto dipende da diversi fattori, come per esempio le condizioni ambientali e il materiale della superficie toccata, ossia se è poroso e quindi in grado di assorbire particelle di sudore, come carta, cartone e legno grezzo, oppure non poroso e che quindi non lo assorbono, come i metalli, la plastica e il vetro. Da qui, poi, le impronte digitali saranno confrontate con quelle suggerite dall’archivio (Afis): se vengono trovate almeno 16 corrispondenze tra le due impronte, secondo il nostro ordinamento giudiziario, allora si potrà confermare l’identità dell’autore del reato.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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