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martedì, Nov 24

In cosa hanno sbagliato i media italiani nel trattare il caso Genovese



Da Wired.it :

“Genio del web”, “Mister startup” e poi le narrazioni morbose sui festini. Si è scelto l’edonismo come cifra stilistica di un fatto in cui violenza e squallore possono emergere solo da un resoconto puntuale e distaccato

Anche in questo mese, in neanche dieci giorni dall’arresto di Alberto Genovese, abbiamo perso un’occasione. Quella di fare cronaca in modo decente, di chiamare le violenze, le vessazioni e gli abusi sessuali per quello che sono, di raccontare il responsabile senza finire prede del demone della “bella scrittura”, immarcescibile fantasma del giornalismo italiano, e soprattutto di tutelare le vittime. D’altronde in un paese in cui definiamo ancora gli abusi sessuali compiuti diffondendo contenuti digitali come “revenge porn” la strada da fare, su e giù dai media, è ancora moltissima.

Una breve rassegna di questi giorni ci racconta perché abbiamo perso questa occasione. Prima di tutto perché abbiamo, di nuovo, costruito un’epica malata intorno al responsabile delle violenze, senza riuscire a proteggere le vittime. “Mister Startup”, lo abbiamo chiamato. Oppure “mago delle startup”. E ancora: “genio delle piattaforme digitali”, “genio del business sul web” o “il vulcano di idee”. E poi l’attico, il jet privato, la terrazza, le droghe: i soliti ingredienti di un brutto giallo a sfondo sessuale in cui le copie si vendono mettendo il colpevole nel posto del protagonista. Lo schema è sempre lo stesso, di volta in volta con l’aggiunta di qualche elemento pittoresco a caratterizzare il “cattivo” di turno: stavolta è stato il mondo degli smanettoni arricchiti col web.

Ci è tornata anche Chiara Ferragni in diverse occasioni in questo periodo, l’ultima qualche giorno fa. “Quando c’è un fatto di cronaca e si parla di violenze, minacce, femminicidi si cerca sempre di dare “false scuse” al comportamento maschile, citando dettagli della relazione che dovrebbero essere ininfluenti – ha detto – ogni volta, anche adesso con Genovese ho letto articoli assurdi: si parlava di lui come un genio e il fatto che avesse stuprato una ragazza non veniva quasi contemplato. Ho letto di uomini che hanno ammazzato la propria famiglia e si diceva: ma era una brava persona. Questi dettagli in una narrazione non vanno fatti, perché tu media stai dando un giudizio che influenzerà il lettore, che darà la colpa anche alla donna che ha subito il reato”.

Se generalizzare è sempre sbagliato, i giornalisti per fortuna non sono un monolite, e alcuni dettagli (non tutti) sono al contrario il dna di una cronaca corretta, l’accusa è sacrosanta ed è la stessa che ci ripetiamo ormai da troppo tempo. Il modo in cui è stato trattato il caso violentissimo e spregevole di Genovese, ma anche quello della donna della provincia di Torino licenziata dal suo posto di maestra d’asilo dopo la diffusione di contenuti privati (anche qui, magari finiamola di chiamarli “materiali hard” come se fossimo in un’edicola degli anni Ottanta), stanno a testimoniare che cultura maschilista e patriarcale permeano il linguaggio in modo molto profondo. Con tanto di appunti – una scelta importante, anche simbolicamente, significa che su argomenti come femminismo, “victim blaming” o “revenge porn” non si improvvisa – la stessa Ferragni lo ha spiegato ai suoi milioni di follower.

Eppure c’è anche dell’altro: se a ogni fatto simile ci ritroviamo a ripercorrere un copione ormai distrutto dalle ferite che è riuscito a infliggere significa che siamo fuori strada anche nell’eventuale percorso imboccato per uscirne. Insomma, che non stiamo andando da nessuna parte. La catena di errori, talvolta orrori – più o meno in buona fede, più o meno speculando, da questo punto di vista è ininfluente, è sempre farina della stessa mentalità – e seguenti accuse andrebbe interrotta: significherebbe che abbiamo imparato a occuparci, con le parole e le scelte giuste, di questi fatti.

Magari, però, fosse il problema di un titolo di giornale. Il problema è che dietro a quel titolo, e a intere categorie di persone che si occupano di comunicazione su ogni livello e ogni canale, manca il coraggio di spazzare via questo mondo. La Rai, per esempio, ha cancellato solo all’ultimo minuto la riproposizione dell’intervista realizzata nel 2016 da Franca Leosini all’uomo condannato come mandante dell’aggressione a Lucia Annibali, sfregiata con l’acido nel 2013. Dietro a quella scelta di programmazione, incredibilmente pensata in corrispondenza con la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, c’è stata una scelta: oltre a Leosini anche gli autori e i responsabili di Rai Cultura che l’hanno messa sul tappeto. C’è insomma un percorso che conduce a certe scelte partendo sempre dal punto di vista più arretrato: sono quelle scelte, e quelle persone, che danno corpo a un sistema. Cominciamo a chiedere loro conto.

Ci sono poi i format che scegliamo, per occuparci di questi fatti: la fiction, l’intervista romanzata e melodrammatica, il talk show con ospiti pregiudizievoli in cui alla fine nessuno risponde di ciò che vomita dalla propria bocca. Sarebbe il caso di assegnare alla gravità di questa condizione che ci imprigiona gli spazi che merita: c’è più senso (e più conseguenze) in dieci minuti di Ferragni che se ne occupa con parole magari semplici ma pulite e chiare che nell’ennesimo, ormai insostenibile programma di infotainment che tiene in ostaggio una delle condizioni più feroci a cui, volenti o nolenti, diamo corpo.

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[Fonte Wired.it]