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mercoledì, Ago 21

Intelligenza artificiale, i lavoratori non se la passano troppo bene


Le condizioni non sono delle migliori e i subappaltatori sfruttano paghe basse e poche tutele. Ma qualcosa sta cambiando tra le aziende

Dai polpi alla IA

L’intelligenza artificiale è ormai uno degli elementi centrali per riuscire a primeggiare non soltanto in ambito tecnologico ma anche in settori molto diversi tra loro e che vanno dall’arte all’industria, fino al mondo finanziario. Nonostante il risultato visibile delle sue applicazioni sia spesso un mondo altamente meccanizzato, nelle fasi di programmazione e di “allenamento”, i sistemi di Ai dipendono ancora ampiamente da impiegati il cui lavoro è prevalentemente quello vagliare, definire ed etichettare grandi quantità di dati che vanno poi a costituire il materiale di base per istruire i complessi sistemi dell’intelligenza artificiale.

Come riporta la giornalista e fondatrice del sito Red Tail, Kate Kaye, in un recente reportage pubblicato sulla Technology Review del Massachussets Institute of Technology, nell’ambiente di questi “lavoratori fantasma”, che svolgono un ruolo fondamentale, si verifica sempre più spesso una gioco al ribasso in cui sempre più persone sono assunte con paghe ridicole e senza tutele. Inoltre, molte aziende che impiegano sistemi di intelligenza artificiale subappaltano ad altre società la parte relativa all’analisi dati, e queste stipulano contratti con lavoratori in tutto il mondo, soprattutto nelle nazioni più povere, senza vincoli di alcun tipo e garantendosi forza lavoro a basso costo e rimpiazzabile in qualsiasi momento.

Così, il dibattito attuale sulla necessità di un pensiero etico riguardo all’intelligenza artificiale non può non considerare anche questa faccia della medaglia, e da più parti alcune aziende che forniscono supporto per l’analisi di dati stanno cercando di migliorare le condizioni di lavoro dei loro dipendenti, mettendo a punto soluzioni più dignitose. Tra queste, compagnie e piattaforme come Alegion, CloudFactory, Digital Divide Data (Ddd), iMerit e Samasource si impegnano a fornire condizioni di lavoro più dignitose e possibilità di carriera, ma si trovano ad agire ancora in un mondo privo di una regolamentazione fissa e definita in maniera organica.

Cosa fanno le aziende

Sono quindi le singole aziende a dover stabilire i propri standard. iMerit, per esempio, fondata nel 2012, è una compagnia che conta all’incirca 2.300 dipendenti a tempo pieno, per metà donne e per la maggior parte basati in India. Oltre a possibilità di carriera interne, qui le dipendenti possono accedere anche un congedo di maternità fino a sei mesi. I dipendenti a tempo pieno di Samasource, basati soprattutto in Kenya e Uganda, possono invece contare sull’assistenza sanitaria, su un piano pensionistico, un servizio di mensa e anche in questo caso su oltre 90 giorni di congedo di maternità.

La Digital divide data, dal canto suo, assume soprattutto giovani che abitano in zone disagiate, anche in questo caso con una percentuale di donne del 50%, per lavorare dalle sei alle otto ore al giorno, e garantisce loro un percorsi di formazione e riqualificazione. Per quanto riguarda invece i dipendenti di Alegion e CloudFactory, questi lavorano prevalentemente con contratti a ore e non sono assunti a tempo pieno.

Tranne Alegion, tutte queste aziende sono parte della Global Impact Sourcing Coalition (Gisc), un network che riunisce società che garantiscono standard lavorativi e forme contrattuali sostenibili ed eticamente corrette. Ma la varietà dei trattamenti proposti nelle singole società è ancora un limite affinché queste pratiche possano diventare una norma stabile nel settore.

Inoltre, riporta ancora lo studio facendo riferimento al recente libro Ghost Work di Mary Gray e Siddharth Suri, l’espansione di questo modello lavorativo nel mercato occupazionale americano, dove hanno base le principali società che impiegano sistemi di intelligenza artificiale, è ancora frenato dalla poca chiarezza nella definizione di regole base e comportamenti etici standard. In mancanza di simili condizioni definite per legge, infatti, le aziende che si appoggiano a società esterne non hanno gli strumenti per poter valutare l’effettivo rispetto delle norme sulla dignità del lavoro da parte delle società appaltatrici, e quindi il sistema dei subappalti resta al momento un territorio ancora popolato di ombre e di “fantasmi”.

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