Come può dire che non c’era l’obiettivo di ingannare nessuno quando ha cercato di ‘ipnotizzare’ i lettori? In fondo, lei ha modificato pagine Wikipedia, tra le quali quella di Bifo, inserendo riferimenti a Jianwei Xun.
“L’inganno è stato uno strumento, non il fine. Non posso certo negare di aver detto che un certo Jianwei Xun era un pensatore di Hong Kong, ma non c’era bisogno di mettere in piedi tutto questo teatro per dimostrare che abbiamo – tutti, io in primis – enormi problemi di attenzione, che i giornalisti non hanno il tempo necessario per fare fact checking di ogni cosa e che le fake news viaggiano a una velocità impressionante. Tutto questo era già evidente e sufficientemente tragico. Per me era importante usare quella bugia per uno scopo più alto, mostrando che la tendenza ad accogliere acriticamente delle informazioni non è un’esclusiva del ‘popolino manipolato dai populisti’ ma riguarda tutti, anche noi che ci sentiamo più intelligenti, più progressisti, più scaltri. E che, soprattutto, se mettiamo da parte il nostro disfattismo possiamo costruire delle narrazioni altrettanto forti di quelle trumpiane, capaci di smuovere l’immaginario di moltissime persone.
Quel che trovo più significativo, poi, è come le reazioni alla rivelazione dell’esperimento abbiano finito per confermare esattamente i meccanismi ipnocratici descritti nel libro. Quando alcuni intellettuali si sono infuriati, non stavano reagendo a un inganno sui contenuti ma alla crepa prodotta sull’apparato di credibilità che sostiene il loro ruolo sociale. L’esperimento ha semplicemente sollevato il velo, e ciò che è emerso è la nostra stessa vulnerabilità alla suggestione, all’aura, al meccanismo di attribuzione del valore”.
Possiamo collocare Ipnocrazia nell’evoluzione del concetto di post-verità?
“Sì. Ipnocrazia si situa nel post post-verità: un tempo in cui non solo la verità è divenuta negoziabile, ma la stessa negoziazione è diventata spettacolo, e chi la domina non ha più bisogno di mentire ma solo di generarne altre versioni. Non si nega il vero, ma lo si rende irrilevante, sommerso da infinite narrazioni equivalenti, tra un Bombardino Crocodilo e un gol di Lamine Yamal. In questo senso, Ipnocrazia non vuole limitarsi a denunciare questa condizione, ma intende soprattutto esporla performativamente: mettere il lettore davanti al proprio meccanismo di attribuzione di valore, chiedendogli di riflettere su cosa considera ‘autorevole’, ‘profondo’, ‘degno di fiducia’. In questo modo può diventare uno strumento pedagogico potente, non perché offre risposte ma perché disinnesca automatismi. Può aiutare a formare una generazione capace di riconoscere come funziona la propria credulità. E questo, oggi, è per me il fulcro del pensiero critico“.
Ha trovato delle differenze generazionali nel modo di interpretare il progetto?
“Gli studenti più giovani, in particolare quelli con cui io e Maura Gancitano dialoghiamo allo Ied di Roma, hanno mostrato una comprensione molto più immediata e intuitiva dell’esperimento. Per le generazioni cresciute in un ambiente digitalmente mediato, l’idea di identità fluide e di autorialità distribuite è (tendenzialmente) meno problematica. Questa differenza generazionale riflette, a mio avviso, concezioni differenti dell’autenticità e della verità: per chi è cresciuto nell’era pre-digitale, la distinzione tra reale e non reale è nettissima; per le generazioni più giovani, la navigazione tra realtà multiple e identità fluide è invece la prassi”.