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mercoledì, Mar 31

vecchi mestieri delle pmi rinascono in chiave 4.0



Da Wired.it :

Da una fonderia aggiornata con sistemi di manutenzione predittiva a un capannone abbandonato riconvertito all’agricoltura verticale: storie di imprese che innovano settori tradizionali

La serra ZeroFarm.

Mercati in buona parte inesplorati, in grado di riservare soddisfazioni agli imprenditori, e invenzioni capaci di modificare (in meglio) le nostre città. C’è un solo problema: qui non ci sono accelerazioni verticali. Le spezzate sui grafici di crescita salgono lentamente.  E questo scoraggia gli investitori della app economy, vittime di quella che gli anglosassoni chiamano fear of missing out, vale a dire la paura di perdersi la prossima Facebook o Skype. Le idee non mancano: ma la stretta del credito bancario e l’abitudine a tassi di crescita verticali per quelli che rischiano (come i fondi di venture capital) strozza la creatività dei territori.

C’è un mondo che attende di essere valorizzato e sostenuto, ed è quello legato ai settori meno cool, dove ci si sporca ancora le mani con il grasso o la terra. Economie importanti possono essere realizzate riadattando i macchinari piuttosto che fabbricandoli ex novo. E le stesse società possono diventare veri e propri centri di produzione dei dati, che restano patrimonio aziendale in un processo circolare. Ma non c’è solo il digitale: è possibile provare a fare innovazione anche con la semplice  meccanica. Abbiamo compiuto un viaggio per l’Italia per esplorare alcune delle nuove possibilità. E trovato soluzioni interessanti – oggi si direbbe smart –  a problemi antichi.

Manutenzione predittiva

Comprarlo nuovo? Non sempre è necessario. Soprattutto se parliamo di macchinari da milioni di euro. Sensoristica e cloud inseriti a posteriori consentono di aggiornare impianti industriali anche estremamente complessi a una frazione del costo, e con una serie di vantaggi collaterali: stessa sicurezza, meno rottami, meno inquinamento.

A Bergamo ci ha provato la fonderia Arizzi, introducendo un’infrastruttura di monitoraggio intelligente per la raccolta e l’analisi dei dati che provengono dalle linee di produzione non ancora digitalizzate. Il progetto è stato curato da Fae Technology, azienda del territorio, con il supporto del centro di innovazione Kilometro Rosso e consente di gestire il funzionamento e la manutenzione del parco macchine tramite algoritmi predittivi.

Se sostituire un macchinario di grandi dimensioni per aggiornarlo può costare diversi milioni, effettuare quello che in gergo tecnico definiamo ‘revamping‘ richiede cifre molto più basse, e che si aggirano tra i 50 e i 100mila euro” spiega Manuel Lobati, innovation manager di Fae. Sensori, gateway e una serie di altri componenti consentono di connettere al cloud impianti che nativamente  sono delle monadi e lavorano isolati, allungandone il ciclo di vita.

Si chiama manutenzione predittiva: parametri come accelerazione, rumore a bordo macchina, assorbimento di corrente, numero di giri del motore vengono rilevati in tempo reale. I dati, poi, sono convogliati su piattaforme cloud che suggeriscono quando effettuare gli interventi.

L’industria pesante è il regno della manutenzione time based – prosegue Lobati -. Significa, a grandi linee, che tre volte l’anno si fermano i processi e si effettuano le operazioni di verifica, sperando che nel frattempo non accada nulla di grave. Noi proponiamo una logica alternativa che consente di monitorare costantemente le operazioni e intervenire solo quando serve, mantenendo le stesse condizioni di sicurezza”. Con un risparmio, secondo i calcoli, del 15% in termini di costi.

Introducendo sensoristica, inoltre, le aziende si costruiscono progressivamente un patrimonio di dati che può essere utilizzato in un secondo momento per migliorare i processi industriali. Il dato viene prodotto e consumato all’interno dell’azienda, in un processo circolare che crea ulteriore valore. Nel caso delle fonderie, ad esempio, è possibile valutare gli effetti del meteo sull’umidità delle sabbie basandosi sull’esperienza.

Il mercato potenziale per le società che fanno trasformazione digitale applicata all’industria è ampio. Limitandoci alla siderurgia, l’Italia è al secondo posto in Europa dopo la Germania per la produzione di acciaio, con oltre 20 milioni di tonnellate nel 2020, valore che prima della pandemia superava i 24 milioni (fonte: Federacciai). Ma sensoristica, monitoraggio e analisi possono essere applicate senza bisogno di rivoluzioni a un ampio ventaglio di impianti e settori: come quello tessile e persino quello agricolo. Il centro di tutto, come sempre, sono i dati, e il loro corollario, le previsioni.

Agricoltura di precisione metro per metro

The last milion dollar sector to be digitalized”. Negli Stati Uniti si dice che l’agricoltura sia l’ultimo settore che resta da digitalizzare con la possibilità reale di diventare milionari. Che non ne esistano altri può essere oggetto di discussioni, ma per Andrea Cruciani e soci la frase è diventata una sorta di mantra: al punto che nel 2008 hanno deciso di costruirci un’azienda.

Agricolus, questo il nome della società con sede in Umbria, a Perugia,  utilizza le immagini satellitari per creare mappe e modelli previsionali in grado di suggerire agli agricoltori come concimare al meglio il terreno, metro per metro, filare per filare. L’azienda è attiva anche nella difesa dai patogeni che infestano le coltivazioni, grazie a speciali trappole ad alta tecnologia che catturano gli insetti e ne riconoscono al contempo sesso, specie e altri dettagli. “Poi mettiamo assieme le informazioni e realizziamo bollettini che aiutano gli agricoltori a prendere le contromisure del caso”, afferma Cruciani.

Dalle vigne della Toscana a quelle della Franciacorta, racconta l’imprenditore, grazie alle immagini scattate dal satellite è possibile raccogliere l’uva tralcio per tralcio solo dove è più matura: seguendo le “mappe di prescrizione”, si ottengono acini perfetti e minor consumo di risorse. Una parte dei dati elaborati arriva da trattori di nuova generazione, che rappresentano già la metà del parco macchine più recente acquistato in paesi come Olanda e Germania. Non in però, dove siamo ancora fermi al 10% del totale.

Vertical farming, ovvero insalata senza terra 

Se l’oro blu deciderà la geopolitica del futuro, a Pordenone si produce insalata senza terriccio in spazi industriali riconvertiti e con il 95% di acqua in meno rispetto a normali coltivazioni. L’azienda che ha studiato il processo si chiama Zero, ha un team tutto italiano e si occupa di vertical farming, agricoltura verticale.

La lattuga è arrivata nei supermercati locali da pochi giorni. “L’elemento fondamentale per una pianta non è la terra – racconta l’ad Daniele Modesto, studi da biologo molecolare -. Il nutrimento viene tratto dall’acqua, dove sono disciolti micro e macro elementi, e poi interviene il processo di fotosintesi“. Processo che, continua Modesto, si può riprodurre in maniera controllata facendo a meno proprio del terriccio. Come? Spiega Modesto: “Sospendendo la pianta con supporti meccanici e lasciando le radici libere in aria. Sono queste a essere irrorate con i nutrienti”. A governare il tutto sono gli algoritmi.

I risultati sembrano incoraggianti. “Dal punto di vista organolettico, riusciamo a garantire qualità in linea con i migliori prodotti sul mercato. La pianta si trova nel suo contesto ideale, la trattiamo come una regina, e alla fine ci ricompensa per il trattamento a cinque stelle” prosegue il manager. Per il momento sono in produzione le insalate, quindici varietà di micro-ortaggi e diverse erbe aromatiche. In futuro, però, si inseriranno frutti rossi e piccoli pomodori, al momento in fase di sperimentazione.

Ma quello di Modesto non è un business agritech. Il vero focus dell’azienda è la riconversione industriale.Il primo sito in cui abbiamo operato era una verniciatura industriale, e invece oggi ci si producono verdure. Insomma, forniamo alle città la possibilità di rigenerare spazi urbani industriali in disuso,che altrimenti non troverebbero collocazione, e lo facciamo convertendoli all’agricoltura“, dice il manager. Non solo. “Il nostro sforzo tech basato su algoritmi e intelligenza artificiale ha una serie di vantaggi: produzione più pulita, indipendente da chimica aggiunta e che non risente delle contaminazioni di aria, acqua e terreno. Il prodotto, inoltre, viene coltivato estremamente vicino a luoghi dove viene consumato“, osserva.

Il vertical farming, ammette, non è una novità in senso assoluto. “Il problema, finora, è stata la sostenibilità economica: noi pensiamo di aver trovato la ricetta giusta per far quadrare i conti“, dice Modesto, che ha esperienze lavorative anche in campo finanziario.

Capitali che mancano

Ma per compiere una piccola rivoluzione può bastare la meccanica. In Sicilia, a Nicosia, il pater familias di una dinastia di olivicoltori si è inventato un macchinario che sarebbe in grado di produrre più olio, di miglior qualità, inquinando meno. “Fino agli anni Ottanta la spremitura si faceva secondo tradizione: nei secoli erano cambiati solo i materiali delle mole”, dice Dina La Greca, ad che all’azienda di famiglia ha dato il nome Biospremi. Con la produzione di massa porta viene introdotta la centrifugazione, che però comporta una perdita di qualità. L’idea dell’anziano patriarca è una pressa originale che estrae l’olio senza fare uso di acqua. “Inoltre la sansa, cioè lo scarto, può essere immediatamente riutilizzata per il riscaldamento domestico, dice l’ad, come da sempre fanno le famiglie che producono l’olio nella zona.

Due brevetti europei depositati, un terzo in arrivo, l’azienda con la propria tecnologia ha raccolto numerose manifestazioni di interesse nelle fiere di mezzo mondo, dalla Turchia al Giappone, ma fatica a trovare capitali. Il punto – lamenta La Greca –  è che, nonostante il nostro settore sconti una forte resistenza all’innovazione e ci sia moltissimo da fare, si tratta di investimenti il cui ritorno è più lento rispetto a quelli in digitale, e che quindi non attraggono il pubblico dei venture capitalist. L’ideale per noi sarebbe trovare un partner industriale per poter cominciare a produrre”.

Le premesse per fare un tentativo, secondo l’imprenditrice, ci sarebbero: “Il nostro sistema è ecosostenibile grazie al fatto che non impiega acqua. Inoltre, abbiamo evidenze di minori consumi di elettricità, incremento della quantità di olio ottenuto e riduzione degli scarti che possono comunque essere riutilizzati. Oltre a un prodotto di qualità migliore rispetto a quello ottenuto tramite centrifugazione”. Ma la famiglia non se la sente di affrontare da sola il rischio.

Modesto, che pure lavora a cavallo tra bit e agricoltura,  è dello stesso avviso. “È sicuramente molto più semplice trovare finanziamento per progetti ‘leggeri’ per questioni di distribuzione del rischio, che in quel caso si può suddividere in tante piccole tranche  – conferma a Wiredanche se poi, chiaramente, dipende dalle quantità di denaro che uno cerca. Ad ogni modo, noi sin dall’inizio abbiamo cercato soci industriali e non venture capitalist, e questo per una questione strategica: avere a bordo dall’inizio dei partner che certificano la bontà  della tecnologia e contribuiscono a crearla è un vantaggio enorme, in questo settore. C’è stata una comunione di intenti industriali per costruire un gruppo che ha visione comune. E del resto, io non sono qui per fare una exit fra sei mesi“.

Difficile immaginare indici che schizzano alle stelle. La vite e gli olivi seguono i ritmi delle stagioni. E persino gli altoforni non rispondono alla regola del subito. Ma ci sono molte realtà promettenti che sfuggono ai radar della grande finanza perché non hanno le metriche giuste. Anche in Italia.  Trovare il modo di accendere un faro su di loro e non puntare semplicemente alla ricerca del prossimo “unicorno” è  una delle sfide che caratterizzeranno la ripresa dalla pandemia.

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[Fonte Wired.it]