Poi ne sono diventata consulente. In Mirandola Comunicazione siamo cresciuti anche grazie a loro. Ho incontrato Jeff Bezos due volte. Ho creduto profondamente nel sogno iniziale: Internet come spazio di libertà. E come spazio immenso di applicazione del mio metodo di “scrittura creatrice”. Per me, innovazione è questo. E Amazon, allora, era un’estensione di quel sogno. Poi è arrivata la frattura. Una frattura non ideologica, ma sensoriale. Bioenergetica. Il mio corpo segnalava un disallineamento.
Lo racconta bene anche Asma Mhalla, nel suo saggio Tecnopolitica, intervistata da Paolo Giordano sul Corriere della Sera il 16 marzo 2025:
Ecco. La mia Lettera a Jeff Bezos è un gesto da Big Citizen.
Un gesto di chi ha capito che, per restare umani in un mondo che ci vuole algoritmici, serve prendere posizione. Scrivere. Parlare. Anche quando fa male. Quando il silenzio sarebbe più comodo.
Lettera a Jeff Bezos non è una biografia, né un’accusa. Ho preso i 16 principi di leadership di Amazon, quelli che in azienda vengono considerati legge e che sono studiati nelle università, e li ho attraversati. Luce e ombra. Per riscriverli. Riequilibrando il loro potenziale generativo e distruttivo. Ognuno di quei principi, nel tempo, è diventato una soglia: tra ciò che è umano e ciò che è meccanico. Tra ciò che fa bene e ciò che consuma. Perché la comunicazione è un atto di attivismo.
Credo, oggi più che mai, che non possa essere neutra. Non possiamo limitarci a “fare il nostro mestiere.” La narrazione è una leva di potere. E va usata con cura, etica, coscienza e responsabilità. In questo senso, Lettera a Jeff Bezos è il mio contributo al futuro della comunicazione. Un futuro in cui tornano protagonisti i corpi, le emozioni, le relazioni. Un futuro in cui la scrittura non è solo mestiere, ma pratica trasformativa.
Il libro è uscito per Do It Human, l’editore che più di ogni altro ha colto il senso del gesto.
La lettera è ancora più urgente oggi di quando l’ho scritta. Perché forse non possiamo cambiare l’intero sistema. Ma possiamo cambiare il carrello. Noi, scegliendo consapevolmente ogni volta che clicchiamo su “acquista ora.” Possiamo usarlo come un’urna quotidiana, votando con i nostri gesti, anche se il nostro impatto è piccolo. Peraltro il peso della sostenibilità del mondo non può ricadere sulle spalle del singolo. Chi ha più potere ha più responsabilità. E, Jeff Bezos, potrebbe cambiarlo davvero. Basterebbe un aggiornamento dell’algoritmo. Una linea di codice diversa. E l’effetto sarebbe immediato, su scala globale: Amazon oggi ha oltre 300 milioni di clienti attivi nel mondo.
Se Bezos tornasse a essere gentile prima che intelligente, come gli insegnava suo nonno, se tornasse a interrogarsi sul significato di servire e non solo di vincere, potrebbe fare del carrello uno strumento di coscienza. Potrebbe suggerire il riuso, la prossimità, la logistica etica. Potrebbe rallentare le consegne superflue, indicare l’impronta ambientale di ogni scelta, lasciare spazio a un’opzione che riduca l’impatto invece di massimizzare la velocità. Non sarebbe solo una funzione. Sarebbe una rivoluzione gentile. Visionaria. Possibile. E cambierebbe, davvero, il mondo. E infatti la mia lettera del 2021 si concludeva così: “Soltanto tu, Jeff, potresti diventare paladino dei tuoi numerosi clienti nel mondo, ancora una volta, per guidarci attraverso questo ponte in cui sostenibilità e digitale si incontrano. La chiave sarà la gentilezza, nella tua comunicazione, ma soprattutto nella tua impresa. Altrimenti non basteranno gli investimenti sul clima a salvare il tuo brand. Grazie, Jeff. Un caro saluto, Marisandra.”