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mercoledì, Set 30

John Shepherd è l’uomo che sussurrava alle stelle e agli alieni



Da Wired.it :

Per anni ha cercato di stabilire un contatto con gli extraterrestri attraverso la musica dal salotto di casa dei nonni. Ma non ha nulla dell’invasato, e oggi è un vecchio saggio docile. John Was Trying to Contact Aliens è il doc Netflix che racconta la sua storia

Ci sono delle foto che custodiscono una storia interessante e non hanno bisogno di spiegazioni per essere raccontate. Un capellone anni ’70 alle prese con enormi macchinari nel salotto di casa con la nonna al suo fianco seduta su una poltrona a ricamare è una di queste. Il regista e montatore Matthew Killip l’ha trovata – e ne è stato immediatamente rapito – all’interno di In Advance of the Landing: Folk concepts of outer space, il libro di Douglas Curran da cui i creatori di X-Files hanno attinto per la creazione della prima stagione, incentrato su diverse persone che si sono gettate anima e corpo, spendendo tutti i soldi e gran parte del proprio tempo,
nel tentativo di stabilire un contatto con gli extraterrestri.

Il ragazzo con la camicia stretta e le mani sulle manopole dell’enorme macchinario si chiama John Shepherd, e per oltre 25 anni ha cercato di stabilire un contatto con gli alieni attraverso la musica. Dal salotto di casa dei suoi nonni. Su Netflix c’è John Was Trying to Contact Aliens (in italiano John e la musica per gli alieni), un piccolo documentario di soli 16 minuti vincitore del premio della giuria come Miglior corto documentario all’ultimo Sundance che racconta la sua storia.

John Shepherd è nato nel nord del Michigan, in una piccola comunità rurale. Abbandonato dal padre quando era ancora neonato e dalla madre non molto dopo, venne adottato dai nonni, che lo crebbero in un piccolo cottage. Non sapevano sarebbe diventato la base per la sua stazione radio interspaziale, e che loro ne sarebbero stati i primi estimatori e finanziatori.  L’intento originale di John era stabilire un contatto con qualche forma di vita aliena, e presto realizzò che il modo migliore poteva essere tentare di farlo attraverso il linguaggio universale della musica. Ovviamente non pop, ma preferibilmente strumentale o, come la definisce Shepherd, “culturale e creativa”. E quindi jazz, afro, gli illuminati sperimentatori tedeschi (Kraftwerk, Tangerine Dream, Harmonia), Brian Eno e, ci tiene a sottolinearlo, gamelan, genere di origine indonesiana. Il perché di queste scelte (oltre che per gusti personali) l’ha spiegato in questa intervista: “Non c’è bisogno di traduzione se qualcosa può essere sentito attraverso l’anima e la mente. C’è sempre quella zona di mezzo tra la realtà e la musica che dà accesso a un paesaggio immaginario: si può cercare di capirlo, o semplicemente rilassarsi e navigare nel flusso”.

Shepherd nel flusso ci ha navigato per molto tempo. Detta così può sembrare la storia di uno dei tanti strambi della provincia americana, un impallinato di ufo un po’ freak, un velleitario da guardare con un sorriso. Lo sguardo ravvicinato di Killip, però, ci mostra un personaggio profondissimo, persino consapevole del velleitarismo della sua ricerca ma non per questo meno convinto della sua natura necessaria, quantomeno per lui. “Non ho trovato risultati significativi, però quanto a ispirazione, idee creative… ha riempito e dato un senso alla mia vita”. John non è mai stato un personaggio particolarmente noto, ma nel corso degli anni non di rado la televisione è andato a trovarlo, per presentarne una versione sempre molto epidermica. In questa comparsata in un programma di Joan Rivers, per esempio, è facilissimo intravedere l’ironia celata ma aggressiva di un mondo – quello televisivo tutto esteriorità e bisogno di risultati subito – davvero in difficoltà nell’inquadrare il senso della ricerca di quest’individuo timido ma deciso. L’incomprensibile capacità di andare avanti dopo (all’epoca) 18 anni di praticamente nulla, la lucidità di dirsi “come un artista che non vende quadri continua a dipingere, io continuo a progettare attrezzature e lavorare su idee”. Troppo per un late show.

C’è una sorta di tristezza che percorre tutto il film, ma si tratta di una malinconia dolce, conferita dall’innata poeticità di quest’uomo ormai anziano, con la barba lunga e gli occhi docili, con un tono di voce gradevole e una dialettica da vecchio saggio che ne ha viste cose. Forse perché, lo si intuisce subito, la vita deve aver riservato degli ampi spazi di solitudine a quel ragazzo che in un paesino del Michigan guardava al cosmo. John parla di tutto questo con calma e semplicità. Del periodo tra i 12 e i 14 anni, quando ha scoperto di essere gay, per esempio, dice solo che “non è stato semplice”, che, per così dire, in quella zona degli Stati Uniti “non si trova molta comprensione”.

Ma John Shepherd non è solo un sognatore che si è imbarcato in una missione più grande di lui. John Shepherd è un genio, un autodidatta che con il tempo è arrivato a costruire un trasmettitore alto due piani con una potenza di 60mila volt. Durante la visione di John Was Trying to Contact Aliens una domanda rimane in sospeso. Come ha fatto a permettersi una strumentazione che inizialmente occupava una stanza intera, due anni dopo un salotto, e che dopo poco è diventata talmente ingombrante da richiedere la costruzione di una dependance davanti casa? Né John né i suoi nonni erano milionari, e per questo Shepherd pescava nelle eccedenze militari e in mercati all’ingrosso, ma soprattutto inventava soluzioni proprie con materiali di scarto, con forni a microonde e tutto ciò che in qualche modo potesse tornargli utile per trasmettere a milioni di chilometri nello spazio. La grande torre posta fuori casa che permetteva la trasmissione, per esempio, era ricavata da un vecchio skilift.

E a trasmettere ci riuscì eccome, istituì il progetto Strat (Special Telemetry Research and Tracking), progettò nuove strumentazioni in un processo creativo in continuo divenire che, probabilmente, ha rappresentato la sua vera ragione d’essere. Una sorta di perenne performance di un artista del suono, della luce e dell’elettricità, e di un anticonformista, come ha lui stesso dichiarato gli piacerebbe essere descritto. La strumentazione, però, era diventata così voluminosa che i costi di mantenimento, pur mantenuti più bassi possibile, alla fine degli anni ’90 sono diventati semplicemente insostenibili, e in un momento di “frustrazione, quasi depressione”, Shepherd si è visto costretto a terminare il progetto Strat.

Ma un artista continua a dipingere anche se non vende quadri, e la vita di John Shepherd non si è fermata a quell’esperienza. Da essa ha casomai mutuato l’instancabile capacità di ricerca, che nel
1993 l’hanno portato a dire, qui sulla Terra: “Contact has been made”.

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[Fonte Wired.it]