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lunedì, Ott 07

Joker non è il capolavoro di cui parlate (e va bene così)


Il film di Todd Phillips non è né un trattato di sociologia né un pamphlet politico, ma ha il merito di averci fatto riscoprire la grandezza di Taxi Driver in un momento storico in cui il cinema non sembra saper dire nulla di nuovo

Una scena del film

Sono tempi mordi e fuggi in cui il presente è già passato, e il semplice esercizio della memoria può essere visto come qualcosa di eccentrico. Perciò negli ultimi giorni le nostre bacheche social sono state inondate da decine di messaggi estasiati dopo la visione di Joker, ritenuto nell’ordine un trattato di sociologia, un pamphlet politico di efficacia senza pari, una meditabonda riflessione sullo strapotere e l’onnipotenza dei media, un capolavoro sul disagio della condizione umana; e che dire di Joaquin Phoenix, il personaggio più inquietante della storia del cinema, il cattivo più spaventevole di tutti i tempi, eccetera.

Com’è noto, il film di Todd Phillips ha vinto il Leone d’Oro all’ultima Mostra di Venezia, gratificato del riconoscimento più importante dalla giuria presieduta dalla regista argentina Lucrecia Martel: possiamo perciò a pieno diritto considerarlo uno dei grandi premi politici di cui è costellata la storia (famosa la Palma d’Oro assegnata a Cannes 2004 a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore da una giuria capeggiata da Quentin Tarantino). Ma Joker si inscrive alla perfezione anche nel declinante momento storico che sta vivendo oggi il cinema, in particolare quello americano, avvitato un po’ per pigrizia un po’ per furbizia nella celebrazione delle proprie glorie passate e impegnato soprattutto a raccontare il già detto, a filmare il già visto, a rappresentare il già sentito. E se in Once Upon a Time in Hollywood Tarantino non fa mistero di voler dedicare un colossale mausoleo al vecchio star system anni Sessanta e Settanta, il Joker di Phillips è più sottile, sardonico e beffardo – proprio come l’anti-eroe che mette in scena – dandosi la pretesa di essere contemporaneo, più attuale che mai.

Proprio la furbizia sembra essere la forza trainante di un film che indaga sulle origini del più noto tra i tanti villain di Batman in un’epoca storica satura di supereroi, e dunque cattura e catturerà l’interesse di milioni di adolescenti in tutto il mondo. Gli fa gioco anche la campagna mediatica da film maledetto, don’t try this at home, sulla lugubre scia della strage americana del luglio 2012, quando alla prima de Il cavaliere oscuro – Il ritorno il ventiquattrenne James Holmes fece irruzione in un cinema di Aurora, Colorado armato di due fucili, una pistola e due bombole di gas lacrimogeno, con i capelli tinti di arancione, asserendo di essere il Joker, uccidendo dodici persone e ferendone altre 58.

Confrontandomi dopo la visione con amici, conoscenti e semplici commentatori da social, ho appurato che diversi fra loro non avevano presente o non ricordavano troppo bene Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) – a dirla tutta, qualcuno non lo aveva neanche mai sentito nominare. Beh, amici, Joker è tutto lì. Le citazioni sono volute, esibite, smaccate, ammesse candidamente anche da Todd Phillips, il quale per realizzare a 49 anni il suo primo film senza aspetti comici o leggeri si è giustamente ispirato a quella che ancora oggi appare una lectio magistralis sul tema dell’alienazione e del disagio psichico – che poi, condiviso dalle mille solitudini di tanti piccoli esseri umani, si allarga fino a diventare disagio sociale. E come spesso succede in questi casi, le citazioni e i riferimenti sono stratificati su più livelli: ci sono quelle didascaliche – il Joker e la sua vicina di casa che scherzano fingendo di spararsi un colpo di pistola alla tempia, ma anche più banalmente Joaquin Phoenix che sbatte ripetutamente la testa contro il muro come faceva il De Niro/Jake La Motta in Toro scatenato – e quelle più sottili, che poi sono le migliori. Per esempio, questa è certamente una delle epoche più alienanti di sempre, con i social e la tecnologia che amplificano il tutto in maniera gigantesca; ma le logiche narrative inducono Phillips ad ambientare la vicenda nella lurida Gotham City del 1981, evidentemente gemellata con la New York del 1975 su cui Travis Bickle anelava un altro diluvio universale per ripulirla dal sudiciume di “puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori…”.

Tutte le piccole differenze di trama soccombono in brillantezza con l’originale e non fanno che rendere omaggio al capolavoro di Scorsese: se il Joker è incapace anche di custodire una semplice rivoltella, Travis persegue scientemente l’obiettivo con meticolosità da professionista, acquistando un arsenale da un equivoco commerciante che poi gli offre anche della droga, venendo seccamente respinto. Oppure il rapporto con le donne: se il Joker banalmente s’immagina tutta una liaison con la vicina, Travis esce davvero con la bellissima wasp interpretata da Cybill Shepherd, e il primo (e ultimo) appuntamento è una perla ineguagliabile di humour nero. Ancora, il rapporto con la vittima designata: se l’anchorman Murray Franklin effettivamente non era stato elegantissimo con il povero Arthur Fleck, Bickle appare ancora più minuscolo agli occhi del senatore Palantine, che ne ignora totalmente l’esistenza per tutto il film. Fino ovviamente al finale, che in Joker è piuttosto scontato e prevedibile (quando non proprio propedeutico a uno o infiniti sequel, vedi l’ultima sequenza), mentre in Taxi Driver coincide con la vetta di sarcasmo più aguzza di tutto il film, quella sì ancora più attuale e contemporanea: il disadattato che viene di colpo elevato a eroe non dalla marmaglia, ma dalla borghesia più colta ed educata, quella che legge i giornali, riguadagnando il rispetto e la cortesia della sua bella e impossibile.

È possibile che, sulla scia di quanto vinto a Venezia, Joker reciterà un ruolo da protagonista ai prossimi Oscar, aumentando il suo appeal artistico nel perturbante decennio che volge al termine. È quasi scontato che Joaquin Phoenix farà del Joker il secondo personaggio della storia del cinema ad aver vinto due Oscar con due attori diversi, dopo il Vito Corleone del Padrino (anche in questo caso c’è di mezzo De Niro). Ma il merito più grande di questo film sembra proprio averci fatto riscoprire al momento giusto l’incommensurabile grandezza di Taxi Driver, film oggi irripetibile sotto mille aspetti, da quello organizzativo a quello puramente creativo: girato tutto di notte, in poche settimane nell’estate 1975, secondo logiche oggi del tutto incompatibili con le major, riassunte da una frase della produttrice Julia Phillips, che col regista di Joker condivideva curiosamente il cognome: “Taxi Driver è un film alla cocaina. Sono stata solo una volta sul set: sniffavano tutti”. Solo per questo, a Todd Phillips il mondo del cinema dovrebbe offrire un drink.

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