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mercoledì, Lug 31

K-drama: perché le serie coreane spopolano


Lo streaming ci ha aperto un mondo, quello delle serie sudcoreane seguitissime in patria e popolari anche da noi (nonostante i sottotitoli) dove sono nate community e gruppi di appassionati

I k-drama sono le serie prodotte nella Corea del Sud, patria del lontano Oriente con un settore dell’intrattenimento vivace e variegato. Mentre nei festival cinematografici europei – da Cannes a Venezia, da Berlino a Locarno – e oltreoceano i film di Kim Ki-duk, Park Chan-wook, Bong Joon-ho e così via mietono successi e riconoscimenti, le città del vecchio continente e del nuovo ospitano i concerti delle star del k-pop in strutture gremite di partecipanti. Analogamente, i k-drama sono l’intrattenimento preferito di una fascia sempre più consistente di pubblico italiano, francese, spagnolo, britannico che non è (solo) quello adolescenziale che idolatra i membri delle boyband asiatiche o quello maturo attratto dal cinema d’essai orientale, bensì è formato da una fascia d’utenza tra i 15 e i 49 anni che macina show uno dopo l’altro.

Fino a pochi anni fa sconosciute, oggi ottime produzioni – a volte migliori delle popolari americane – sono fruite da un pubblico anche nostrano che nel frattempo ha preso dimestichezza con l’universo della rete. Ma perché le serie della Corea del Sud spopolano – nonostante siano in una lingua incomprensibile ai più – tanto da creare folte comunità sui social che le sostengono come Drama Italia ,K-Drama e Non solo drama nella testa? Ecco perché i k-drama fanno impazzire chi scrive e tanti altri appassionati italiani, e i fattori che hanno posto le premesse della loro diffusione.

Se fino agli anni ’90 era normale affidarsi allo zapping compulsivo o alla guida tv per rimediare un film o un programma con cui passare la serata, oggi, con l’on demand, la fruizione di film e serie sul piccolo schermo – che siano i 50 pollici della smart tv o i 13 del tablet – è più personale, meno “familiare” e meno generalista. La trama non deve più accontentare tutti e, soprattutto, non deve essere più necessariamente espressa in italiano. Il nostro paese, a differenza di quella scandinavi e di molti altri europei, è stato a lungo legato alle tempistiche e alle limitazioni del processo di traduzioni, adattamento e doppiaggio. Sfogliare il catalogo Netflix con l’unica esigenza di trovare uno show attraente sapendo di poter spaziare tra prodotti di tutto il mondo – grazie alla magica invenzione dei sottotitoli – è un gran passo avanti. Il canale streaming pullula di ottimi titoli mediorientali, scandinavi, asiatici che hanno abituato gli utenti a non fossilizzarsi su americani e italiani. L’avvento di svariate piattaforme free (valga l’esempio di Viki) che offrono librerie infinite e di qualità zeppe di film e serie coreane, cinesi e asiatiche ha aperto un mondo, concedendo a noi che “non ci accontentiamo” di scegliere tra poche decine di proposte mainstream ma pretendiamo di perderci tra le offerte fino a trovare quello che ci emoziona veramente.

Nel caso specifico delle produzioni della Corea del Sud – che alla fine degli anni ’90 è stata colpita da una miracolosa renaissance culturale, la cosiddetta Hallyu, portata avanti da artisti di immenso talento –, la sua produzione seriale è particolarmente ricca ed eterogenea. Il circuito televisivo coreano è simile al nostro: hanno i canali nazionali come la nostra Rai (Sbs), quelli privati come Mediaset (Kbs), i digitali free come i canali Discovery (Mbc) e i satellitari come Sky (Tvn). Come le nostrane generaliste realizzano serie rivolte al pubblico più ampio e familiare, quelle pay sono più adulte, più costose e tendenzialmente di genere.

In pratica, la scelta è ampia e gli show facilmente reperibili online. I k-drama spaziano tra legal e medical (come Suits e The Good Doctor, di cui gli americani hanno fatto il remake), tra romance e serie scolastiche (come What’s Wrong with Secretary Kim? e Boys Over Flowers), tra fantasy e storici (vedi Goblin e Hwarang), tra comedy e azione (Coffee Prince e City Hunter). Le produzioni migliori sono veri e propri blockbuster (come Mr Sunshine, Korean Odyssey, Memories of the Alhambra, Abyss o Arthdal Chronicles, tutti reperibili su Netflix) con scenografia, fotografia e musiche di qualità cinematografica. Tra le serie coreane ce n’è davvero per tutti i gusti, una soddisfazione incredibile per i teledipendenti più esigenti che senz’altro incapperanno nello show corrispondente alle proprie necessità più specifiche, finendo per attanagliarli nel bingewatching e, a volte, di privarli della vita sociale (il famigerato “ancora una puntata e basta” vi suona familiare?)

I k-drama hanno una marcia in più a livello narrativo e di costruzione di personaggi: troverai sempre qualcosa di nuovo e diverso. Gli sceneggiatori coreani raramente ricorrono alla pratica (a cui gli americani sono assuefatti) del rifarsi a soggetti già sviluppati: quelli elaborati da questi autori sono quasi sempre originali. In tutti i sensi: i protagonisti possono essere sirene, alieni, divinità, oppure campioni di arti marziali miste, ideatori di robot giocattolo, stuntwoman, cultori del cappuccino, sollevatrici di pesi, o ancora bulli, segretarie, esorcisti, aspiranti sindaci e idol. Quello che sogniamo di essere, per quanto strano, c’è. La creatività dei creatori di k-drama non ha limiti e ci sono nomi, come quello di Kim Eun-sook, autrice della maggior parte dei k-drama migliori (come Secret Garden o A Gentleman’s Dignity), che per popolarità e finezza della narrazione compete con colleghe oltreoceano quali la regina della tv americana Shonda Rhimes.

A questo si aggiunge un altro fattore importante: gli interpreti di questo show (molti dei quali sono volti noti del cinema che bazzicano i festival occidentali come Doona Bae, Jang Dong-gun o Teo Yoo) sono delle divinità in patria, e dal pubblico straniero sono apprezzati non solo per la bravura ma anche per l’aspetto. Controllati da agenzie di pr strapotenti (roba da far impallidire la WMA) la loro vita privata è monopolio dei media (di recente il divorzio di Song Joong-ki e Song Hye-Kyo è diventata una questione di stato); testimonial in lucrose pubblicità dei brand di moda (per questo sono sempre in prima fila alle sfilate parigine), sono impegnati in tour internazionali dove incontrano – firmando autografi, cantando e rispondendo alle domande – i fan e hanno profili Instagram che fanno un milione di visite a post.

Quasi tutti sono bellissimi (non di rado grazie alla chirurgia plastica, diffusissima in Corea del Sud): che abbiano 40 anni o 20 sono veterani sin dalla tenera età di svariate serie, e per questo molto riconoscibili. Il fascino che esercitano fa parte dello stesso fenomeno che ha permesso il successo mondiale delle boy band pop come i celeberrimi BTS, ovvero l’esibizione di un tipo di bellezza delicata ed elegante che viene ritenuta irresistibile da una fetta di pubblico occidentale sempre più vasta, non solo adolescente. Questo tipo di mascolinità androgina non è esattamente per tutti i gusti (parola di chi scrive), ma come accennato il panorama coreano è vasto e non mancano star dallo stile più macho (come Teo Yoo, statuario attore coreano di nazionalità tedesca) che difficilmente lasciano indifferenti. Il 20enne Ji Soo, il 30enne Park Seo-joon, il 40enne Gong Yoo o il 50enne Cha Seung-won sono seguiti da spettatori e spettatrici teenager come di mezza età che ne apprezzano sì la bravura ma anche la bellezza, e lo stesso vale per le eteree attrici dotate di sensualità quanto di talento come Gianna Jun, Go Ara o Kim Tae-ri. Naturalmente, i k-drama non sono scevri di difetti – censura (non sono concesse scene troppo esplicite di sesso e violenza) e durata (sono per lo più a stagione unica con una lunghezza per episodio tra i 60 e gli 80 minuti) sopra tutti.

Per il resto, il loro unico limite siamo noi, o quella parte di pubblico che non se la cava con internet, le culture straniere e le nuove avventure.

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