Armi autonome, sciami di droni e la nuova frontiera dello spazio: è in corso una rivoluzione militare, di cui finora abbiamo visto solo i primi atti. Come cambieranno gli arsenali militari nei prossimi anni?

(foto: Joe Raedle/Getty Images)

“Qualunque cosa succeda, noi abbiamo la mitragliatrice. Loro no”. Così, parlando dell’Africa, si esprime un viaggiatore europeo nel racconto di epoca colonialista The Modern Traveller, di Hilaire Belloc. Col passare dei decenni e dei secoli il vantaggio bellico dell’Occidente sul resto del mondo è stato esemplificato anche dalla bomba atomica (che l’Unione Sovietica conquistò solo a cavallo degli anni Cinquanta) e poi, in tempi più recenti, soprattutto dai missili di precisione e dalla tecnologia stealth, che hanno contribuito a rendere gli Stati Uniti l’unica vera superpotenza militare.

Oggi questo vantaggio si sta rapidamente erodendo, come ha confermato un dirigente del Pentagono al Financial Times: “Siamo stati occupati per anni in guerre a basso tasso tecnologico, combattendo contro persone che sparavano razzi dal retro dei loro camion. La Cina intanto è diventata sempre più capace e si è pericolosamente avvicinata a noi”.

Non è un caso: secondo gli esperti, Pechino ha studiato il modo in cui gli Stati Uniti si sono approcciati ai vari conflitti fin dalla Guerra del Golfo degli anni Novanta, analizzando a fondo i vantaggi statunitensi che non potevano essere raggiunti (per esempio, la potenza aerea) e investendo in tecnologie attraverso le quali sfruttare i punti deboli dell’impianto bellico a stelle e strisce.

L’avanzata della Cina

Il risultato è che la Cina sta rapidamente colmando il divario; merito anche – secondo il responsabile tecnico del Pentagono Michael Griffin – della rapidità con cui Pechino riesce a passare dai progetti alla realizzazione pratica (in media, 7 anni), rispetto alla maggiore lentezza statunitense (16 anni).

Le due potenze militari – una in ascesa e l’altra che rischia il declino – si trovano così a competere nello sviluppo e implementazione delle nuove tecnologie belliche; dando vita a quella che Foreign Affairs definisce la nuova rivoluzione degli affari militari, ovvero “l’emergere di tecnologie così disruptive che sovvertono i concetti e le abilità militari già esistenti, rendendo necessario un ripensamento di come, con cosa e da chi la guerra è condotta”.

Immaginare a quali tecnologie si stia facendo riferimento non è difficile: intelligenza artificiale, sistemi autonomi, sensori diffusi ovunque, comunicazioni in 5G, computer quantistici. Tutte le innovazioni digitali di cui sentiamo parlare quotidianamente hanno delle potenzialità in ambito militare. E l’avanzata della Cina in questi settori si ripercuote inevitabilmente anche nello sviluppo di armi sempre più sofisticate, progettate nella nuova agenzia per la ricerca sulle armi tecnologiche che la Repubblica popolare ha da poco messo a punto (modellandola sulla falsariga della statunitense Darpa).

E gli Usa? Non stanno certo a guardare. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le nuove inquietanti armi hi-tech create dall’industria bellica degli Stati Uniti: dal missile autonomo e a lungo raggio della Lockheed Martin (teoricamente in grado di riconoscere da solo le navi nemiche e abbatterle) fino al drone autonomo, soprannominato Bender e sviluppato proprio dalla Darpa, capace di scovare e identificare i nemici armati anche quando si nascondono, di distinguerli da civili o fotografi (una situazione che, in passato, ha confuso gli operatori umani con tragiche conseguenze), di pedinare i veicoli nemici e di trasmettere al comando solo le informazioni rilevanti.

In estrema sintesi, gli Stati Uniti sembrano concentrarsi soprattutto sull’aggiornamento di armi più o meno tradizionali (missili e droni), potenziandole grazie all’intelligenza artificiale e dotandole così della capacità di agire con autonomia sempre maggiore. Ma basterà? “Il modello tradizionale del potere militare Usa sta venendo travolto, nello stesso modo in cui il modello di business di Blockbuster è stato travolto dall’ascesa di Amazon e Netflix, scrive ancora Foreign Affairs. “Una forza militare che consiste in un piccolo numero di sistemi costosi e difficili da sostituire non potrà sopravvivere sui campi di battaglia del futuro, dove sciami di macchine intelligenti agiranno con un volume di fuoco e una velocità superiore a quanto si sia mai visto”.

Armi manovrate con la mente

Il successo in campo militare, quindi, non sarà più garantito da armi singole ed estremamente potenti, ma semmai da un vastissimo numero di sistemi di piccole dimensioni, economici, sacrificabili e soprattutto autonomi. Uno degli esempi più facili è lo sciame di droni armati – ma non particolarmente sofisticati (a differenza quindi di Bender) – che si coordina al suo interno grazie all’intelligenza artificiale e che è in grado di decidere quale obiettivo attaccare e con che strategia. In linea teorica, un centinaio di mini-droni da combattimento potrebbero essere in grado di abbattere anche un jet da combattimento o una portarei.

Il cambio di paradigma è relativo anche alla gestione di questi sistemi: se oggi un drone classico – nonostante non abbia nessuno a bordo – è gestito da un vero e proprio team di soldati (per manovrarlo, aggiustarlo, analizzare i dati raccolti, eccetera), nel futuro, secondo Foreign Affairs, le cose dovranno andare in maniera diametralmente opposta. Tutto ciò anche approfittando dei progressi nel campo delle interfacce uomo-macchina: “Questa tecnologia sta già offrendo all’essere umano la possibilità di controllare sistemi complessi, come le protesi robotiche o anche gli aerei senza pilota, solo attraverso i segnali neurali. Messa in maniera semplice, sta diventando possibile che un operatore umano controlli molteplici droni pensando a cosa vuole che questi sistemi facciano”.

Invece di armi complesse, costose e che richiedono un team di persone per la loro gestione, il futuro della guerra potrebbe andare in direzione di armi piccole, economiche, sacrificabili, in grado di gestirsi autonomamente o di essere controllate a distanza da un solo operatore.

Ma questa non è l’unica rivoluzione in corso. Una seconda, e forse ancora più importante, riguarda i luoghi in cui le guerre verranno combattute: “Tradizionalmente, si è sempre ritenuto che lo spazio fosse un luogo pacifico, in cui centinaia di satelliti militari si occupavano soltanto di intelligence, meteo, comunicazioni e radar”, si legge sul Financial Times. “Gli operatori che controllano i loro movimenti sono solitamente più preoccupati di dover evitare i 500mila frammenti volanti che si aggirano in orbita che di un attacco nemico. Ma tutto questo sta per cambiare”.

Guerre stellari

Lo spazio potrebbe diventare la nuova frontiera della guerra, come dimostra anche la decisione di Donald Trump di dare vita all’Air Force Space Command, una nuova divisione militare interamente dedicata allo spazio. Per quanto possa sembrare una decisione degna più di Star Wars che del mondo in cui viviamo, la verità è che, anche in questo caso, gli Stati Uniti sono rimasti indietro: nel 2007, la Cina ha lanciato un missile balistico oltre 300 chilometri nello spazio, per distruggere un suo vecchio satellite dedicato al meteo. Da allora, la prospettiva di usare armi spaziali per colpire i satelliti delle nazioni rivali è diventata improvvisamente una realtà a cui gli Usa si stanno ancora adattando.

Questo è solo l’inizio: fino a oggi, la difficoltà nel rifornimento delle navi spaziali ha limitato le loro potenzialità; i progressi tecnologici hanno però reso queste navi sempre più indipendenti dalle operazioni di terra, rendendo possibile immaginare un loro utilizzo bellico: “Le navi spaziali saranno in grado di manovrare e combattere: le prime armi orbitali potrebbero così entrare nel campo di battaglia. La tecnologia per farlo esiste di già”, si legge sempre su Foreign Affairs.

Lo spazio, gli sciami di droni intelligenti e le interfacce cervello-macchina: secondo gli esperti (e senza contare tutti gli aspetti legati al cyberwarfare), sono questi i tre protagonisti della nuova rivoluzione militare. Tutto ciò ha soprattutto due conseguenze. La prima è anche la più ovvia: autonomia delle macchine in campo militare significa accettare che i droni e altri sistemi (come il missile di Lockheed Martin) possano decidere da soli quali bersagli colpire e, di conseguenza, chi sarà vittima della guerra.

Questo solleva enormi problemi etici, sottolineati a più riprese dalla campagna Stop Killer Robots e che hanno portato tutte le nazioni a garantire che, prima di fare fuoco, l’ultima parola spetti sempre a un essere umano. Ma per quanto tempo si avrà questa sicurezza? A differenza di quanto avvenuto con le bombe atomiche (che erano e sono appannaggio di un club molto ristretto), molte delle nuove tecnologie sono potenzialmente a disposizione anche di attori molto meno potenti di Cina, Stati Uniti e le altre nazioni avanzate.

Una differenza fondamentale, che rischia di dare vita a ciò che il professor Ole Waever, docente di Relazioni internazionali a Copenhagen, ha chiamato securitisation, spiegando come alcuni attori possano “invocare un principio di necessità per aggirare alcuni limiti legali o morali”. In questo caso, il rischio è che la diffusione di armi autonome tra stati canaglia, gruppi terroristici e altre entità possa costringere anche realtà più istituzionali ad abbandonare alcune norme etiche per non lasciare un vantaggio strategico agli avversari. Se l’Isis o la Corea del Nord si dotassero di droni capaci di fare fuoco in totale autonomia, con tutti i vantaggi che questo comporta in termini di rapidità ed efficacia (e senza curarsi troppo degli inevitabili errori), siamo davvero sicuri che le altre nazioni non decideranno di avvalersi degli stessi strumenti in nome della sicurezza?

Infine, il fatto che il nuovo teatro di battaglia diventerà anche lo spazio e che le armi saranno sempre più controllate a distanza (o non controllate affatto), significa che – come scrive il World Economic Forum – “i combattimenti saranno sempre più astratti dalla nostra esperienza quotidiana e la guerra potrebbe sembrare più tollerabile alle società”. Questa distanza e il minor coinvolgimento di soldati in prima linea potrebbe quindi avere una conseguenza del tutto imprevista: la moltiplicazione dei conflitti armati. Ma per i civili che la subiscono, anche la guerra autonoma che si va profilando continuerà ad avere conseguenze tremende. Il rischio è che a fare le spese delle innovazioni belliche siano, come sempre, i civili che vivono nelle aree più difficili del pianeta.

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