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mercoledì, Set 18

La Cina ha usato dei “troll di stato“ per mettere in cattiva luce le proteste di Hong Kong


L’operazione non ha avuto molto successo ma, se le responsabilità di Pechino venissero confermate, sarebbe il primo esempio di un’interferenza della Cina oltre i suoi confini nazionali

(foto. Anthony Kwan/Getty Images)

Questa estate, mentre il mondo intero seguiva l’evolversi delle proteste a Hong Kong e si domandava come e quando la Cina sarebbe intervenuta, migliaia di pseudo-troll – o meglio: utenti con scarsa propensione al dialogo, per così dire – riconducibili al Regno di mezzo cercavano di influenzare il dibattito sui social network in favore di Pechino.

Il fatto che la Cina cerchi di influenzare il dibattito pubblico non è una novità: all’interno dei suoi confini lo fa da anni e – di fatto – non lo ha mai nascosto. La vera notizia è che stavolta ha cercato di aprirsi un varco in un contesto internazionale, usando piattaforme di derivazione statunitense – come Facebook e Twitter – che nel paese sono bloccate.

Le prime notizie a questo proposito sono emerse il mese scorso, ma solo in questi giorni l’Australian Strategic Policy Institute, un think tank con sede a Canberra, e il New York Times hanno studiato il fenomeno e fornito ulteriori dettagli.

L’operazione non sembra essere stata studiata nel dettaglio e ha avuto un successo solo parziale, ma secondo gli esperti può essere paragonata – soprattutto per gli scopi che si prefissava – a quella che la Russia ha messo in piedi in occasione delle elezioni presidenziali del 2016 negli Stati Uniti.

I troll pro-Cina si muovevano su tutte le principali piattaforme, ma erano attivi soprattutto su Twitter. Il social di Jack Dorsey è stato il primo ad accorgersi di ciò che stava succedendo e a prendere provvedimenti, puntando il dito contro il governo cinese e disattivando diversi account. Prima che ciò accadesse, nessun altro gigante americano della tecnologia aveva mai accusato Pechino di qualcosa di simile.

Account veri, account falsi

Il mese scorso Twitter ha eliminato mille account e ne ha sospesi altri 200mila che non erano attivi ma venivano considerati parte di un’operazione messa in piedi dal governo cinese per screditare le proteste a Hong Kong. Lo stesso hanno fatto poco dopo anche Facebook e YouTube. Twitter non ha detto come è arrivato alla conclusione che i troll fosse riconducibili al Partito comunista cinese, e non ha fornito ulteriori dettagli sul caso.

Oggi sappiamo per certo che gli account erano gestiti da qualcuno che si trovava in Cina – anche se nel paese l’accesso alla piattaforma è bloccata – e hanno prodotto milioni di tweet; almeno fino a qualche anno fa, i suddetti profili sembravano essere gestiti da persone vere, senza nessuna particolare agenda.

Molti di questi account non sono stati infatti creati all’inizio dell’estate appena trascorsa, quando sono iniziate le prime manifestazioni nel territorio autonomo. Erano attivi già da vari anni e mostravano tweet su vari argomenti, come il calcio e la musica coreana, pubblicati in più lingue tra le quali inglese, arabo e indonesiano. Solo in alcuni casi, a questi tweet se ne erano aggiunti altri in difesa del governo di Pechino, soprattutto dopo il 2017.

Tutto è cambiato a giugno di quest’anno, quando molti di questi account hanno iniziato a postare tweet quasi solo a sfondo politico, e scritti soprattutto in cinese, come: “Noi supportiamo la polizia di Hong Kong”.

Tutti questi tweet sono stati pubblicati durante l’orario di lavoro, e in un caso si è scoperto che apparivano sempre 12 o 42 minuti precisi dopo che era scattata una determinata ora; in un altro, gli esperti non sono riusciti a capire se l’account fosse gestito da una persona sola e realmente esistente.

L’impatto della campagna di disinformazione

Il New York Times scrive che l’operazione non ha raggiunto gli obiettivi per i quali era presumibilmente stata messa in piedi: i tweet di questi account che sono stati ritwittati di più non si riferivano alla politica ma erano video di animali, o link a siti pornografici (Twitter consente la pubblicazione di materiale esplicito).

Questo insuccesso è una delle ragioni per cui alcuni rappresentanti del think tank australiano hanno messo in dubbio le responsabilità della Cina. Elise Thomas, uno degli autori dello studio, ha detto che sarebbe sorpresa di scoprire che l’operazione è opera dell’Esercito popolare di liberazione – le forze armate cinese – che ha già orchestrato campagne di informazione e cyberspionaggio in passato. “Mi aspetterei un livello maggiore di competenza”, ha detto.

Al tempo stesso, scrivono gli autori, è possibile che la campagna sia così abbozzata perché non è il frutto di un progetto studiato a lungo e nei minimi dettagli, quanto piuttosto il risultato di una risposta affrettata alla sorprendente partecipazione delle dimostrazioni di Hong Kong.

Samm Sacks, che è un’esperta di Cina e collabora col think tank statunitense New America, aggiunge un ulteriore tassello nell’analisi di questo fenomeno. A suo dire, i risultati di questa operazione sono la dimostrazione che “quello che funziona in Cina non funziona a livello internazionale”. Sacks si riferisce al fatto che negli ultimi anni Pechino ha schierato diversi account per controllare il dibattito sui social nei suoi confini. Nel 2013, il responsabile del dipartimento della propaganda aveva dichiarato che solo a Pechino c’erano più di 2 milioni di persone impiegate in questo tipo di attività.

 

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