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martedì, Gen 14

La “fase due” di Fridays for Future: colpire il portafogli di chi inquina


Greta Thunberg e i suoi emuli sparsi intorno al globo vogliono alzare la posta, chiedendo ai potenti del mondo di bloccare gli investimenti nei combustibili fossili per indebolire le compagnie petrolifere

Un anno fa rubava la scena ai leader mondiali riuniti a Davos gridandogli in faccia che la nostra casa è in fiamme. Oggi che gli incendi in Siberia, Amazzonia e Australia hanno mostrato che aveva ragione da vendere, Greta Thunberg, l’attivista svedese diventata icona del movimento globale Fridays For Future, punta il dito sui piromani del clima: le compagnie petrolifere. In un intervento sul Guardian scritto con altri venti attivisti, Thunberg ha annunciato che al 50esimo incontro del Forum economico mondiale in programma la prossima settimana a Davos, sulle Alpi svizzere, cercherà di convincere manager, finanziatori e politici a non investire più sulle fonti fossili che alimentano il riscaldamento globale.

Nell’ultimo periodo i giovani attivisti di Fridays For Future sembrano avere alzato il tiro. Non si accontentano più di denunciare l’emergenza climatica e l’inerzia dei governi nel ridurre le emissioni, ma hanno cominciato a prendere di mira le compagnie petrolifere là dove fa più male: il portafoglio. Questa volta, infatti, Thunberg chiederà a banchieri, top manager e leader politici di smettere di finanziare lo sfruttamento e la ricerca di nuovi giacimenti, nonché di eliminare i generosi sussidi che tengono a galla l’industria dei combustibili fossili.

Dalla firma dell’accordo di Parigi a oggi – denuncia Thunberg citando un rapporto di Rainforest Action – le principali banche internazionali hanno infatti elargito ben 1,9 miliardi di dollari per finanziare l’industria dei combustibili fossili. Mentre il Fondo monetario internazionale stima che ogni anno si spendano 5.200 miliardi di dollari (cioè 10 milioni di dollari al minuto) per sovvenzionare le fonti fossili: una somma che supera di gran lunga gli incentivi destinati alle rinnovabili. In pratica, anziché finanziare la transizione energetica, stiamo finanziando il riscaldamento globale. “Tutto questo deve finire”, ha scritto Thunberg.

Lo scorso maggio, persino il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres aveva speso dure parole di condanna nei confronti di queste sovvenzioni: “Stiamo usando il denaro dei contribuenti – cioè i nostri soldi – per rendere più violenti gli uragani, diffondere la siccità, sciogliere i ghiacciai, sbiancare le barriere coralline. In una parola, per distruggere il mondo”. Mentre gli esperti del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite (Unep) giudicano gli attuali investimenti nelle fonti fossili del tutto incompatibili con la possibilità di evitare una catastrofe climatica.

Tuttavia non sarà facile convincere gli alti papaveri di Davos. Sia perché sono ancora i combustibili fossili a mandare avanti la baracca (soddisfano oltre l’80% del fabbisogno energetico mondiale), sia perché le compagnie petrolifere possono spendere grandi somme in pubblicità e attività lobbying: nel 2018 ExxonMobil, Shell, Chevron, Bp e Total hanno investito più di 200 milioni di dollari per rifarsi un’immagine di aziende responsabili e attente all’ambiente. E l’italiana Eni non è da meno: nel medesimo anno ha speso 80 milioni di euro in pubblicità, promozione e attività di comunicazione.

Ecco perché di recente Thunberg ha chiesto ai mass media di rinunciare alle pubblicità delle compagnie petrolifere. In un tweet ha detto di essere a conoscenza di un solo quotidiano, lo svedese Dagens ETC, che ha già fatto questa scelta coraggiosa. “Chi vuole essere il prossimo?”, ha lanciato la sfida Thunberg.

Nel frattempo l’industria dei combustibili fossili affina la strategia. L’American Petroleum Institute, il principale lobbista di Big Oil, ha appena lanciato una campagna sul “progresso energetico” per dipingere il gas naturale come un’alternativa sostenibile al carbone, ormai messo fuori mercato dalla cattiva fama e dalla competitività delle rinnovabili. Puntare sul gas è una scelta seguita anche dall’Eni e in sostanza sposata pure dal Piano nazionale integrato su energia e clima (Pniec) del governo. L’aggettivo “naturale”, del resto, è un bell’aiuto in termini di immagine. E così oggi il grosso degli investimenti finisce sull’espansione del gas, che insieme al petrolio rischia di vanificare i benefici della dismissione del carbone, gettando altra benzina sul fuoco – è il caso di dirlo, seppure con amarezza – del riscaldamento globale.

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