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La Gen Z sta riscoprendo le serie anni ’90

da | Lug 4, 2025 | Tecnologia


Ironia a parte, è curioso questo improvviso interesse per serie andate in onda prima che nascessero: forse vedere un mondo più lento, senza notifiche, senza iPhone, senza social, in qualche modo li affascina. O forse perché la sigla di Dawson’s Creek non ha lasciato speranze a nessuno, nemmeno a chi in quel periodo era nel liquido amniotico e non sul divano a sciogliersi in una (legittima) valle di lacrime. Chissà.

Rewatch-terapia, lo dice la scienza

E per ricordare a tutti i vecchiacci come me che i giovani spesso e volentieri non dicono (solo) sciocchezze, quello che fanno è pure benedetto dalla scienza: secondo diversi studi psicologici, il rewatch di contenuti familiari riduce l’ansia, abbassa i livelli di stress e dona al cervello una sensazione di controllo in un mondo percepito come incerto e, per usare un eufemismo, inaffidabile.

È una coccola per il cervello, una coperta di Linus in formato sitcom o affini. E non fa bene solo alla Gen Z, eh. Anche noi millennials — categoria notoriamente indecisa, iper analitica e affetta da decision fatigue cronica — troviamo nel rewatch una vera àncora di salvezza. Rivedere per la settima volta Friends, Scrubs, Una mamma per amica o Six Feet Under non è solo nostalgia: qualcuno sostiene sia perfino una strana forma di sopravvivenza.

Sappiamo già cosa succede, chi muore, chi si lascia, chi ha una crisi davanti a un brownie.
E questa prevedibilità ci consola, ci accoglie, ci alleggerisce il cervello in un mondo che ogni giorno ci chiede di scegliere, valutare, ottimizzare, performare. Nessuna richiesta d’azione, solo un limbo di benessere dove trovare riposo.

Divertente come cambia il mondo: a 15 anni io non guardavo nulla che i miei genitori avessero approvato. Il solo pensiero di farmi consigliare una serie da un adulto mi dava l’orticaria, la nausea e un principio di influenza gastrointestinale. Oggi invece la Gen Z si dimostra capace di rivedere, riconsiderare, rivalutare. Ha un’apertura mentale che, per quanto iperfiltrata da TikTok, mostra una curiosità che noi, alla loro età, spesso non avevamo. E ora eccoli lì che citano Monica, analizzano Chandler come se fosse un caso clinico (ed in effetti…), e si commuovono per Lorelai Gilmore come se fosse una madre vittima di una serie di crisi di nervi e non un personaggio di fantasia. Ottimo.

Finalmente possiamo parlarci senza farci venire un calo di zuccheri per lo sconforto e rischiare lo svenimento causa pressione alta. Sì, magari ci divide l’uso dei pantaloni cargo, il numero di emoji per frase (noi vecchi ne usiamo molte di più) e il fatto che loro dicano “slay” dove noi dicevamo “minchia zio”. Ma questi sono dettaglietti. In alto i calici per le belle notizie: oggi possiamo ridere insieme degli attacchi d’ansia di personaggi nati nel ’94, piangere per Buffy e mettere in stand by il cervello su pezzetti di sitcom anni ’90… Forse tutto questo brusio social di sottofondo non è poi così mefistofelico.

Il dialogo intergenerazionale non passa per forza da conversazioni profonde. A volte scrolla, prende una scorciatoia: quella che passa da un divano arancione, da una Beverly Hills che non esiste più e un algoritmo che – per una volta – crea punti di incontro. Olè.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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