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sabato, Mag 02

La lingua della pandemia: come il coronavirus ha cambiato il nostro modo di parlare



Da Wired.it :

Dall’ossessione per i termini medici a quella per la panificazione, la sociolinguista Vera Gheno spiega come questo momento storico ha cambiato il nostro modo di esprimerci e raccontarci

Venezia
(foto: MARCO SABADIN/AFP via Getty Images)

L’esplosione della pandemia di Covid-19 non ha cambiato soltanto le nostre vite, incidendo profondamente sulla nostra quotidianità, ma anche il nostro modo di parlare. Per esplorare il modo in cui la lingua italiana ha conservato traccia di questo momento storico così destabilizzante, abbiamo chiesto il parere di Vera Gheno, sociolinguista, affermata saggista e docente universitaria (oltre che più volte ospite del Wired Next Fest), che ha risposto alle nostre domande.

In primo luogo, quale rapporto esiste tra società e lingua? È la prima a influenzare la seconda, o può accadere anche il contrario?

“Tra lingua e società esiste sicuramente uno stretto rapporto, che si muove, però, in entrambe le direzioni. Da una parte, la lingua registra ogni cambiamento sociale e ne conserva traccia: quando ci troviamo di fronte a un concetto nuovo, abbiamo bisogno che la nostra lingua si modifichi per poterlo esprimere e quindi nascono parole nuove; oppure accade che parole che prima avevano un significato lo cambino e lo adattino a nuovi contesti (è il fenomeno che in linguistica si chiama slittamento semantico, o risemantizzazione funzionale). Ma accade anche che sia la lingua a influenzare il nostro modo di percepire la realtà, mettendone a fuoco alcuni aspetti che, senza una parola o un’espressione di riferimento, resterebbero sullo sfondo e sarebbero meno percepibili. Questo scambio bidirezionale tra lingua e società avviene di continuo ed è il segno di una lingua efficace e vitale, che riesce ad adattarsi alla realtà e a rispecchiarla”.

Possiamo fare qualche esempio di cambiamenti nella nostra lingua in questo particolare periodo?

Vera Gheno (foto: Umberto Costamagna)

“Ci sono stati, per esempio, alcuni interessanti slittamenti semantici: parole che usavamo abitualmente con un significato ne hanno assunto un altro, che è diventato sempre più comune. Pensiamo, per esempio, al nuovo significato del verbo tamponare, adoperato oggi con il senso tecnico di eseguire un tampone per una diagnosi. Finora questa parola non era generalmente mai stata adoperata con questo significato. Abbiamo un uso medico di tamponare con riferimento all’atto di bloccare la fuoriuscita di sangue da una ferita, ma l’accezione attuale è, per così dire, un inedito. Ma ci sono ottime probabilità che quest’uso si consolidi e che entri nelle nuove edizioni dei vocabolari.

In generale, le espressioni appartenenti al campo della medicina, com’è naturale, sono sempre più presenti nella nostra vita quotidiana e nei media. Comprendiamo parole prima sconosciute ai più, come l’aggettivo paucisintomatico. Altre espressioni prima molto comuni sono in declino, per esempio l’aggettivo virale nel senso traslato di qualcosa che si diffonde rapidamente attraverso i social. Ma pensiamo anche a espressioni come sono una persona positiva, che oggi nessuno si sentirebbe più di usare a cuor leggero, perché l’aggettivo positivo rimanda ormai alla positività rispetto all’infezione. Da sempre genera confusione il fatto che positivo abbia un significato, paradossalmente, negativo nel lessico medico; oggi il termine si carica di una negatività di fondo che ci spinge a non adoperarlo. Continuano a godere di una certa fortuna parole come resilienza, anche con riferimento alla situazione attuale, sebbene appaiano un po’ logorate dall’uso, tanto che, per esempio, ultimamente sono sostituite da altre, come antifragilità, che indica, semplificando all’estremo, la capacità di trasformare in punti di forza le proprie debolezze.

Nei giorni del confinamento il nostro modo di parlare è cambiato? Mentre il mondo attorno a noi sembrava restringersi, in che modo la lingua registrava questo cambiamento?

“Si è potuto, per esempio, notare nelle famiglie di parole (i linguisti le chiamano campi semantici) adoperate nelle nostre conversazioni, che si sono naturalmente svolte soprattutto con mezzi telematici. Di solito la bella stagione porta con sé discorsi su viaggi e attività da svolgere all’aria aperta, ma nei giorni del confinamento abbiamo adoperato un lessico che faceva riferimento soprattutto all’ambito domestico o alla sfera del familiare e dell’intimo. E mentre in molti riscoprivano la passione per la cucina, è aumentato l’uso di parole relative a questo ambito, con particolare riferimento al pane. È qualcosa che non deve stupire: la centralità del pane nella cultura mediterranea lo rende un elemento di rifugio in un momento di grande stress e incertezza come questo e produrlo in casa – e parlare dei nostri tentativi di panificazione – comunica un senso di sicurezza.

Tra le espressioni più spesso adoperate in un significato negativo rientra tutto ciò che ci ricordava la necessità di essere confinati in uno spazio ristretto: l’idea di piccolo, chiuso. Nella nostra società il carcere è la punizione per eccellenza, perché va a colpire la libertà personale. L’improvviso ritrovarsi tutti in una dimensione di libertà limitata ha inciso profondamente sul modo di percepirsi e raccontarsi”.

Che ne pensa del diffuso uso di parole ed espressioni del lessico militare con riferimento alla pandemia?

I media hanno spesso parlato della pandemia come di una guerra, di medici e infermieri al fronte, in trincea, in prima linea. Personalmente non condivido l’uso della metafora bellica in riferimento alla Covid-19, perché ritengo che si tratti di una narrazione tossica, che porta con sé una serie di effetti negativi. Ricordiamo che il concetto di guerra rimanda a quello di nemico, quindi una narrazione di questo tipo risulta divisiva e alimenta il conflitto. L’uso della metafora bellica, inoltre, favorisce la percezione degli operatori sanitari come eroi: si tratta di uno stereotipo che molti di loro rifiutano, perché suggerisce l’idea che sia giusto essere mandati in trincea senza le opportune precauzioni. Medici, infermieri e personale sanitario sono, invece, dei professionisti che hanno, come tutti, il diritto di svolgere il proprio lavoro in sicurezza (cosa che, purtroppo, spesso non si è verificata, come le molte vittime tra queste categorie testimoniano).

È, in generale, importante che i media si pongano il problema delle immagini che adoperano nel dare le notizie. L’italiano è una lingua che tende molto all’uso di immagini e metafore, ma bisogna riflettere con responsabilità sui corollari che l’uso di certa retorica si porta dietro, perché le parole possono avere importanti conseguenze. Forse, di fronte a una situazione grave e carica di emotività come quella che stiamo vivendo, sarebbe più opportuno mettere da parte la retorica e limitarsi a riferire i fatti, in modo semplice e asciutto, come è abituale, per esempio, in altre nazioni”.

Ci sono altre ragioni alla base della sovrabbondanza di retorica?

“Alla base potrebbe anche esserci la tendenza tipicamente italiana a rivolgersi al pubblico in modo paternalistico, come se non potesse comprendere dei fatti senza l’aiuto di immagini e metafore, senza una forma di mediazione. La tendenza al paternalismo si può anche vedere nel continuo parlare degli italiani come irresponsabili e restii a rispettare le regole, anche se i dati che ci provengono dai controlli dicono il contrario”.

Il modo in cui parliamo degli altri riflette questa narrazione che divide?

“In ogni momento caratterizzato da stress o paure, come quello in cui viviamo, si amplifica la tendenza a puntare il dito verso gli altri, a separare il noi da un voi rispetto al quale ci si sente diversi e migliori. Ho chiamato questa tendenza noivoismo: si tratta di un atteggiamento istintivo di diffidenza nei riguardi degli altri, di cui si parla alla seconda persona perché non li si vuole includere nel noi. Ed ecco che viene spontaneo individuare, volta per volta, un nemico diverso: i cinesi, i podisti, i bambini, chi porta a spasso il cane… Sono molte le categorie alle quali si è attribuito l’epiteto di untori, anche qui con uno slittamento semantico, perché i fantomatici untori della peste, di cui parlava anche Manzoni, erano accusati di diffondere intenzionalmente la malattia. Si tratta, quindi, di una modalità di comunicazione che contribuisce ad alimentare il conflitto”.

 

Da più parti si è sottolineato come la pandemia potrà portare con sé dei passi indietro nei riguardi della parità di genere e della questione femminile. Ne possiamo cogliere dei segnali anche nella lingua?

“Sì, il nostro modo di parlare ha subito registrato le caratteristiche di un dibattito che sembra aver messo da parte le donne, che sembrano sparite o relegate a un ruolo secondario, ancillare. Task force composte, perlopiù, di soli uomini tendono a relegare le donne sullo sfondo e ad assegnare loro ruoli ben definiti, da angelo soccorritore o del focolare. Per esempio, nella narrazione mediatica, si dà per scontato che siano le donne a restare in casa con i bambini, dal momento che le scuole, con ogni probabilità, non riapriranno in tempi brevi. Molto significativo il fatto che, anche in questa circostanza, quando si è fatto notare un uso poco paritario della lingua italiana, ci siano state reazioni di sufficienza e benaltrismo. Per esempio, di fronte alle proteste relative al modulo per l’autocertificazione per gli spostamenti che non prevedeva il femminile, la risposta è stata una banalizzazione della questione: i problemi seri sarebbero sempre ben altri. Il messaggio di fondo sembra essere questo: la questione femminile potrà essere affrontata solo quando tutti gli altri problemi saranno risolti. Si tratta di un’impostazione profondamente scorretta e che è importante contrastare anche attraverso il nostro modo di esprimerci. È importante allearsi per creare un movimento trasversale che possa essere più incisivo, perché tutti possano essere adeguatamente rappresentati, comprese le persone con identità non binaria”.

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[Fonte Wired.it]