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giovedì, Giu 27

La mia vita con John F. Donovan, ovvero il primo film brutto di Xavier Dolan


Un cast di celebrità non ripara un film scritto male e poco coerente. L’enfant prodige del cinema canadese ha perso il tocco magico o ha solo ecceduto in autoreferenzialità? Dal 27 giugno al cinema

Quasi tutti, negli ultimi anni, ci siamo innamorati di Xavier Dolan.
Che sia successo nel 2009 quando a Cannes presentava la sua opera prima J’ai tué ma mère, o cinque anni dopo col suo film più apprezzato, Mommy, nei tre film usciti in mezzo a questi due o nel successivo È solo la fine del mondo, poco cambia: prima o dopo ci ha conquistato. E allora abbiamo fatto ricerche su di lui e ci siamo imbattuti in alcune parole chiave che sembrano immancabili quando si parla del canadese: enfant prodige, talento unico, incredibilmente prolifico. Seduzione completata.

È per questo che, quando a settembre 2018 ha presentato al Toronto International Film Festival il suo primo film in lingua inglese, The Death and Life of John F. Donovan, il cui titolo italiano da oggi in sala è La mia vita con John F. Donovan, e ha ricevuto in modo pressoché unanime delle critiche che potremmo eufemisticamente definire stroncature, ma che nei fatti sono state una sorta di gara a chi riusciva a definire quanto più direttamente possibile lo schifo che il film gli avesse provocato, ci siamo chiesti: cosa è successo?

Nel film, l’attore bambino Turner (Jacob Tremblay) scrive una lettera a John F. Donovan (Kit Harington) suo idolo e star di una serie televisiva. Inaspettatamente Donovan risponde, avviando così una fitta e segreta corrispondenza (anche agli occhi della made di Turner, Natalie Portman) che durerà anni. Tutto è narrato dal Turner ormai giovane uomo (Ben Schnetzer), che ha raccolto questo scambio epistolare in un libro e che per questo è intervistato dalla giornalista Audrey Newhouse (Thandie Newton).

Buona parte delle critiche iniziano da una convergenza biografica, perché Dolan a nove anni scrisse una lettera al suo idolo Leonardo DiCaprio, e gli è stato imputato di aver di nuovo trovato un modo per parlare di sé, stavolta, però, sbrodolandosi, svuotandosi e ripetendosi. Ma non può essere questo il difetto de La mia vita con John F. Donovan, perché Dolan è sempre stato (e, probabilmente, sempre sarà) un autore portato, per ego o ispirazione, a mettere al centro di tutto la sua figura, o una qualche emanazione di essa, che sia l’omosessualità, il rapporto odio amore tra madre e figlio o il perenne giovanilismo. 

Decade così anche l’accusa “Dolan ha parodiato se stesso”. Perché sì, questo film presenta alcuni macro temi dei suoi film passati, e ha la vertiginosa propensione ad avvicinarsi alle derive a cui il suo cinema tende (isterismo, autoreferenzialità, estetismo), ma non di più di quanto già non si fosse arrischiato con È solo la fine del mondo, che pure navigava costantemente in acque pericolose ma che tutto sommato riusciva a mantenere l’equilibrio.

La vera forza di Dolan non è mai stata la sceneggiatura, e non perché non sappia scrivere, tutt’altro, ma il fulcro di ogni suo lavoro sta nella dirompente forza espressiva degli attori, nella sua macchina da presa che li riprende splendidamente e in come tutto questo è acuito dalle musiche.   

Il punto è che stavolta il bilanciamento non c’è, e i difetti strutturali sono talmente macroscopici che, in un perverso circolo vizioso, le cose molto belle di La mia vita con John F. Donovan hanno più che altro l’effetto di evidenziare le storture, di farci pensare che qualcuno stia provando a imbrogliarci. Perché a una mancanza di plausibilità che va ben oltre qualsiasi ipotesi di sospensione dell’incredulità applicabile a questo film, sono affiancate delle scene di rara bellezza, che sembrano proprio avere il compito nascondere sotto al tappeto quella mancata plausibilità.

Ed è per questo che la più rilevante colpa di Dolan in questo film è, sostanzialmente, quella di essere un grande impostore. L’ammaliatore che gira una scena di memorabile grazia e di sicuro impatto emotivo, con Natalie Portman che scende una scalinata sotto la pioggia per rincorrere il figlioletto Jacob Tremblay, che fluttua con la macchina da presa intorno alla ringhiera come solo un autentico fenomeno della regia può fare, e che incornicia tutto questo con Stand By Me nella versione di Florence + The Machine. Lo stesso ammaliatore che, contestualmente, dopo il primo terzo di film perde il filo della storia e la misura di cosa possa o meno essere raccontato all’interno del mondo che lui stesso ha creato, dando ai fatti un’inspiegabile piega iper drammatica le cui basi non riescono a essere rintracciate in quello che è mostrato.

L’ammaliatore che sa a chi sta parlando: i 25-35enni di cui lui è il primo grande rappresentante in un certo cinema. E così, per esempio, ci sono Rolling in The Deep di Adele o Jesus of Suburbia dei Green Day, due brani a cui tutti, fan o meno, siamo legati, e che stimolano un immaginario personale che sappiamo (sa) essere anche collettivo. E se nei film passati canzoni come Dragostea Din Tei o Wonderwall (!), sembravano essere scelte certo scaltre ma anche di forte affermazione autoriale (come a dire: “Queste sono le mie influenze. Ultra pop? Certo, ma questo sono io, e Titanic è il mio film di riferimento”) in un film così mal scritto come La mia vita con John F. Donovan suonano più che altro come una raffazzonata captatio benevolentiae.

Insomma, dopo sette film estremamente potenti, Xavier Dolan ne ha fatto uno magnificamente fiacco e pleonastico. Glielo possiamo decisamente perdonare.

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