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lunedì, Feb 08

La più grande protesta della storia di cui non hai sentito parlare



Da Wired.it :

In India decine di migliaia di agricoltori hanno marciato su Delhi per protestare contro le leggi sull’agricoltura volute dal governo Modi, sostenuti da uno sciopero con 250 milioni di adesioni. La risposta delle autorità passa dal blocco di internet e dei social media

Come da istruzioni governative, i servizi Internet sono stati bloccati nella vostra area fino a nuovo ordine”. Questo il messaggio che si sono visti recapitare, il 26 gennaio, gli abitanti di diversi distretti di Delhi. “Nell’interesse della sicurezza pubblica”, continuava l’annuncio, “è necessario e opportuno ordinare la sospensione temporanea dei servizi internet nelle aree di Singhu, Ghazipur, Tikri, Mukarba Chowk e Nangloi e nelle aree adiacenti al territorio della Capitale nazionale di Delhi dalle ore 1200 alle ore 23:59 del 26 gennaio 2021”.

A minacciare, secondo le autorità, la sicurezza al punto da richiedere l’interruzione di un servizio di comunicazione centrale per l’esistenza quotidiana di tantissime persone (la sola Delhi conta quasi 19 milioni di abitanti) era il più recente exploit di un movimento popolare che dall’agosto 2020 si oppone alle riforme agrarie volute dal governo del conservatore Narendra Modi. A piedi e su trattori, in concomitanza con la Giornata nazionale della Repubblica i manifestanti sono scesi in strada a Delhi, allontanandosi presto dal percorso approvato dalle autorità, che li avrebbe mantenuti lontani dal centro della capitale. Addentrandosi oltre gli sbarramenti preposti dalla polizia, poi, hanno raggiunto il Forte Rosso, tra le destinazioni turistiche più popolari della Vecchia Delhi.

Una simile escalation del conflitto era nell’aria da mesi. In un paese chiamato casa da 1,3 miliardi di persone, in cui oltre la metà della forza lavoro è impiegato nell’agricoltura, già a novembre i contadini avevano animato la più grande protesta nella storia dell’umanità quando avevano marciato a decine di migliaia su Delhi, sostenuti da uno sciopero di circa 250 milioni di persone nell’intero subcontinente. Il governo era stato costretto a scendere al tavolo delle trattative. E lì si è arenato.

Le ragioni delle proteste

Colpiti prima dalle carestie d’epoca coloniale, poi dallo sfruttamento dei proprietari terrieri e più recentemente dai cambiamenti climatici, gli agricoltori indiani lavorano ancora in grandissima parte per piccole fattorie locali piuttosto che per grandi multinazionali agroalimentari. I tassi di suicidio tra chi lavora nel campo sono altissimi, e le storie di indebitamento e catastrofi ambientali che rovinano i raccolti si sprecano. Così, quando a settembre Modi si è affrettato a spingere attraverso il Parlamento tre leggi che incoraggiano gli investimenti privati nell’agricoltura, rimuovendo le barriere commerciali che garantiscono ai piccoli agricoltori di riuscire a distribuire i propri raccolti sul mercato senza dover competere eccessivamente con i giganti dell’agroalimentare, in tantissimi l’hanno vissuto come l’ennesimo assottigliamento del già magro sostegno governativo di cui godono gli agricoltori.

Non restava che protestare: prima negli stati profondamente agricoli del Punjab e dell’Haryana, poi a livello nazionale al grido di “Bharat bandh”, “chiudiamo l’India”. Accampatisi in massa nella periferia di Delhi con tanto di trattori, i manifestanti hanno promesso che non se ne andranno fino a quando le tre leggi non saranno ritirate e il governo prenderà dei provvedimenti per mantenere le piccole fattorie competitive sul mercato. Le contrattazioni sono ancora in corso, e la tensione rimane altissima.

Dopo la temporanea occupazione del Forte Rosso, l’interesse internazionale verso una situazione che si trascina da mesi è aumentato a dismisura. Ad esporsi in merito sono state, tra le altre, la popstar Rihanna – che ha twittato un articolo della Cnn al riguardo, domandandosi perché non se ne stia parlando a sufficienza – e Greta Thunberg, che ha espresso solidarietà con i manifestanti. Il governo indiano non l’ha presa benissimo: il ministero degli Esteri in un comunicato si è scagliato contro “i gruppi d’interesse” che starebbero cercando di mobilitare un sostegno internazionale “contro l’India”.

L’accesso a internet negato

Cosa c’entra tutto questo con l’accesso della popolazione indiana a internet? In quella che si vanta di essere la più grande democrazia al mondo, guidata da un uomo che ha promesso di trasformarla in un paradiso del digitale, in teoria nulla. In pratica, però, sotto l’egida del primo ministro Narendra Modi l’India è diventata il paese in cui si ricorre di più all’arresto di internet per ragioni di “sicurezza nazionale” sulla faccia del pianeta. Negli ultimi cinque anni è successo oltre 400 volte. Nel solo 2019, l’accesso alla rete è stato bloccato in India 121 volte. Al secondo posto c’è il Venezuela, dove è successo 12 volte. In genere, il governo competente non annuncia che il blocco sta per entrare in vigore, né li informa su quanto durerà.

La pratica serve non solo a gettare nel caos i crescenti movimenti di protesta privandoli del loro principale metodo di organizzazione, ma anche per bloccare il flusso di informazioni in caso di abusi da parte delle forze dell’ordine e ad assumere il controllo della narrazione.

Ciò che i governi vogliono ottenere con la chiusura di Internet è di impedire alle persone di riunirsi e protestare, il che è totalmente incostituzionale”, ha spiegato a Vice Apar Gupta, attivista digitale e direttore esecutivo dell’Internet Freedom Foundation, con sede a Nuova Delhi. “In un certo senso, la risposta del governo vuole controllare l’organizzazione delle proteste, ma anche la narrazione nei media, perché le proteste sono spesso integrate da strumenti digitali e social media che amplificano i loro messaggi”.

Nel 2019, ad esempio, in risposta a una controversa legge sulla cittadinanza che ha scatenato le proteste in tutto il paese il primo ministro Modi aveva twittato: “Voglio assicurare ai miei fratelli e sorelle dell’Assam che non hanno nulla di cui preoccuparsi dopo l’approvazione del disegno di legge sull’emendamento sulla cittadinanza. Voglio rassicurarli: nessuno può togliere loro i diritti, l’identità unica e la bellissima cultura”. Peccato che i fratelli e le sorelle della regione dell’Assam non potessero leggere questo messaggio, dato che l’accesso a internet era stato bloccato in risposta alle manifestazioni nella regione.

Nel caso di regioni come il Kashmir, gli shutdown servono anche a tenere sotto controllo un’intera popolazione: quando la Corte suprema indiana ha stabilito che gli “arresti di internet a tempo indeterminato” sono illegali, il governo ha cominciato a limitare la connettività mobile del Kashmir da un 4G a un 2G, creando comunque seri disagi alla popolazione locale. A Delhi, il 26 gennaio la stessa repressione governativa si è manifestata arbitrariamente nell’interruzione della connessione per oltre 52 milioni di persone da parte della polizia cittadina nel corso di una protesta che ha portato alla morte di un manifestante, alla detenzione di altre duecento persone e al ferimento di circa trecento agenti.

Ad ammantare di legalità queste operazioni è una legge del 2017, la Temporary Suspension of Telecom Services (Public Emergency or Public Safety) Rule, che amplia i poteri di sorveglianza del governo mancando di definire precisamente cosa conti come “emergenza pubblica” o “questione di sicurezza pubblica”. Il governo indiano è obbligato a rendere pubblica la presunta minaccia che giustificherebbe lo shutdown, ma spesso le autorità si rifiutano di fornire prove della gravità effettiva del pericolo da loro dichiarato.

Ironicamente, un’analisi approfondita condotta dal ricercatore dell’iniziativa non-profit Digital Ranking Rights Jan Rydzak dimostra che bloccare l’accesso ad Internet non solo punisce l’intera popolazione, costando al contempo miliardi di dollari al Paese. Lasciati senza piattaforme social come Facebook o Whatsapp su cui organizzare delle proteste pacifiche, i manifestanti finiscono talvolta per ricorrere ad una risposta che precede di centinaia di migliaia di anni il World Wide Web: la violenza.

L’impasse tra Twitter e il governo indiano

A trovarsi invischiata suo malgrado in questa opera di crescente repressione del dissenso è Twitter. Lunedì 1 febbraio, la compagnia statunitense ha momentaneamente bloccato l’account di oltre 250 personaggi indiani – tra commentatori politici, giornalisti, attivisti e addirittura una testata di giornalismo investigativo – su richiesta del governo di Nuova Delhi. La loro colpa sarebbe stata quella di utilizzare un hashtag legato alle proteste che secondo le autorità “istiga le persone a commettere reati”. I profili sono stati ripristinati circa sei ore dopo in nome della libertà d’espressione. Al governo indiano non è piaciuto.

Il giorno seguente, il ministero della Tecnologia indiano ha ordinato nuovamente a Twitter di bloccare gli account, che a loro parere “diffondono disinformazione sulle proteste” e hanno il potenziale di “accelerare violenze che mettono in pericolo l’ordine pubblico nel paese”. Il governo ha inoltre minacciato diverse persone che lavorano per la compagnia in India di portarli in tribunale con il rischio di ottenere pene detentive fino a sette anni, rigettando l’argomentazione sulla libertà d’espressione sollevata dall’azienda perché “non ha le basi costituzionali, statutarie o legali” per interpretare correttamente ciò che costituisce libertà di parola in India.

Secondo la legge indiana, Twitter non ha alcuna scelta se non obbedire alla richiesta di rimozione dei contenuti da parte delle istituzioni. Obbedire significherebbe però venire accusati – con una certa cognizione di causa – di star collaborando ad un’operazione di silenziamento del dissenso. Il fatto che il governo Modi non si sia fatto problemi a vietare TikTok ed altre piattaforme cinesi per ragioni “di sicurezza nazionale” nei mesi scorsi complica ulteriormente la posizione della compagnia di San Francisco.

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[Fonte Wired.it]