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giovedì, Giu 20

La politica italiana del 2019 ha sdoganato la violenza fisica


La pena corporale è ormai un evergreen della comunicazione politica leghista, e non solo: una retorica pericolosa, che fa del corpo del diverso un elemento sacrificale del consenso

(Foto: Alberto Pizzoli/Afp/Getty Images)

Sa di poterlo fare. Di colpire una minoranza fra le più devastate d’Europa. Ma il punto non è quello. Perché in questa Italia cattivista ciascuno di noi, a seconda delle proprie stagioni della vita, delle proprie fortune e sfortune o delle proprie scelte e condizioni, può trasformarsi in minoranza sotto attacco: donne, omosessuali, stranieri, avversari politici, disoccupati, meridionali, intellettuali, detenuti. Chiunque (con una certa prevalenza per gli obiettivi storicamente penalizzali).

Grazie a uscite come l’ultima, dedicata a una donna rom, Matteo Salvini – e con lui il tenore della comunicazione politica – ha spostato nel tempo il livello del dibattito sul piano punitivo corporale. “Questa maledetta ladra in carcere per trent’anni, messa in condizione di non avere più figli, e i suoi poveri bimbi dati in adozione a famiglie perbene. Punto” ha scritto lo scorso 18 giugno rilanciando un articolo del Giornale che racconta la vicenda di Vasvija Husic, 33enne bosniaca e borseggiatrice seriale a quanto pare arrestata decine di volte, ma che finora ha evitato il carcere in virtù di una gravidanza in corso.

Anche della castrazione chimica, poi archiviata in parlamento, sappiamo molto. Il leader del Carroccio ha lanciato anche una raccolta firme: “Nessuna tolleranza per pedofili e stupratori: la galera non basta, ci vuole anche una cura” aveva scritto su Facebook, invitando in altre occasioni a studiarne l’applicazione in altri paesi, e definendola trattamento sanitario. Ora se ne propone evidentemente una versione anche per le donne. Ma il complesso della sua retorica – così sanguinaria, triviale, bassa in termini di vocabolario e di richiami metaforici suscitati nelle persone, a partire dall’immagine-santino della ruspa che tutto spiana, organismi inclusi – ha ottenuto in questi anni un obiettivo dal quale sarà difficile tornare indietro: ha spostato la politica sul corpo delle persone, profanando la sfera più inviolabile della nostra condizione umana.

Non è un caso, d’altronde, che nella Giornata mondiale del rifugiato – che si celebra oggi per ricordare i 70 milioni di persone che fuggono da povertà, guerre e persecuzioni – in virtù di un decreto sicurezza bis che gli assegna maggiori poteri, l’Italia sta ponendo fine alla politica internazionale del diritto d’asilo, sequestrando da giorni 43 persone al largo di Lampedusa. Corpi, ancora corpi: la politica di oggi, e la sua comunicazione, non passano solo dal “corpo del leader”, come molti analisti hanno raccontato negli anni individuandone un protagonismo ormai essenziale al consenso, ma anche e soprattutto da quelli delle sue vittime, più che dei nemici.

Disponendo, sui corpi delle vittime politiche, un intervento che può farsi di volta in volta invasivo, pseudosanitario, dissacrante (come alle manifestazioni della Lega, quando si mettono nel mirino le “solite zecche rosse”), punitivo indistinto, proprio come sui migranti, in cui dei corpi si perde contezza, specificità: teste trattate come capi di bestiame, e non come individui.

C’è ovviamente un elemento di autoritarismo molto forte, nelle posizioni di Salvini come in quelle di chiunque si metta sulle sue tracce: sono i regime antidemocratici che non si fermano mai, neanche di fronte alla sacralità del corpo, della cui violazione fanno al contrario sfoggio di autorità (vale anche per quello dei criminali, certo, perché chi delinque viene dato in custodia alle forze dell’ordine e in ultima istanza alla Repubblica che dovrebbe garantire la loro integrità).

La vicenda di Stefano Cucchi (e di molte altre vittime di stato) avrebbe dovuto insegnarci molto, e invece non solo le tutele non sembrano aumentare ma la minaccia corporale è ormai un canale essenziale di azione politica. Nulla di nuovo: è la biopolitica di cui parlava Michel Foucault fin dalla metà degli anni Settanta. Cioè la trasformazione delle qualità e specificità biologiche del corpo umano (si pensi anche al dibattito sulla sfera riproduttiva, che meriterebbe un approfondimento a parte) in obiettivo principale delle strategie di potere. Un corpo che cambia la sua natura e viene vissuto solo come riflesso del suo specchiarsi nelle tecnologie, nella scienza, nei saperi, ma anche di un’altra delle branche più efficaci del contemporaneo: nella comunicazione che lo rende elemento sacrificale del consenso.

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