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venerdì, Mar 06

La prova più grande del coronavirus è essere genitori a tempo pieno



Da Wired.it :

Un tempo infinito da trascorrere in casa coi figli, tra incastri di impegni impossibili e un certo disperato senso di solidarietà tra genitori. Ma al tempo dell’emergenza possono essere i bambini a ridarci la giusta dimensione delle cose

La prima settimana di chiusura delle scuole per coronavirus, mio figlio di quattro anni ha preso l’influenza. Vabbè – ho pensato – meglio così: sarebbe stato a casa comunque, e la chiusura della scuola non inciderà troppo sulla nostra organizzazione di famiglia complicata.

La seconda settimana di chiusura delle scuole, l’influenza è passata. Abbiamo costruito un castello di carte estremamente precario, fatto di incastri tra giornate di telelavoro, Skype da casa, nonni che arrivano da un quartiere lontano, zii disponibili a tenere i due cugini insieme, e babysitter. Qualche giorno ha piovuto, e le giornate si sono fatte estremamente lunghe, con una voce costante che risuonava in corridoio: “Mamma, papà, giochiamo con gli omini del Playmobil? Facciamo che c’erano i pirati, e i pompieri volevano rubare il forziere del tesoro?”.

La terza settimana deve ancora arrivare, ma l’agenda è già un campo di battaglia dove si affrontano gli orari di lavoro, gli esami del sangue che non si possono rimandare, la spesa da fare, gli impegni dei nonni, le moltissime giornate in cui sembra pioverà, il tentativo di essere utile anche agli altri amici che non sanno come cavarsela con i figli, la chiusura delle ludoteche e degli spazi gioco per bambini tra gli zero e i sei anni.

Nella camera da letto di Emiliano, ogni sera,  sembra ci sia stata una sommossa popolare. I libri giacciono impilati ai piedi del lettino, i peluche ricoprono interamente ogni superficie libera, i puzzle fanno bella mostra di sé sul pavimento, e i pirati si nascondono sotto le lenzuola, cercando di mettere in salvo il forziere d’oro dagli avidi pompieri che cercano di rubarlo. E se alzo lo sguardo oltre la finestra, mi sembra di vedere altre migliaia di case nelle stesse condizioni:  bilocali invasi da pennarelli, fogli, trenini e mucchi di lego; camere con due o tre figli, pensate per una convivenza part-time e che adesso si ritrovano a essere terreno di scontro 24/7, tentativi di parkour tra il letto e il comodino, briciole di merenda su ogni pavimento.

È anche per questo che, quando possiamo, usciamo.
In giro, con altre mamme e altri papà, ci scambiamo rapidi saluti distrutti: Te la stai cavando, tu? Se hai bisogno chiama.

L’altro ieri siamo stati in libreria. Dentro c’erano altri sei bambini con altrettanti genitori alla ricerca di una comfort zone. Con Emiliano abbiamo letto venti libri illustrati e poi ne abbiamo comprato uno. In tre giorni l’abbiamo letto almeno sessantotto volte: all’inizio ci era sembrato carino; adesso odiamo il leone e il topolino con tutto il cuore, e li sogniamo agonizzanti mentre chiedono pietà per aver avuto la pessima idea di presentarsi a casa nostra.

Stamattina, preso dalla disperazione della noia, Emiliano mi ha chiesto: “Mamma, posso pulire un po’ casa con la scopa?”. E così ci siamo ritrovati, alle otto e un quarto del mattino, a spazzare in terra: Emiliano passava con una scopa e io dietro, a pulire quello che a lui sembrava sinceramente di aver già pulito. Poi abbiamo cambiato insieme le lenzuola dei letti. O almeno, io tentavo di cambiarle mentre lui si tuffava in mezzo al piumone per costruire la casetta: “Adesso facciamo che io ero nella casetta e tu venivi, bussavi, e io ti dicevo Chi è?”. Ha ragione lui, mi ripetevo, mentre cercavo di non ringhiare, alla terza volta che mi toccava rimettere il lenzuolo con gli angoli.

Emiliano, del resto, non sa perfettamente perché le scuole siano chiuse.
Il concetto di tempo per un bambino di quattro anni è estremamente labile: credo stia vivendo questi giorni come un fantastico weekend in cui stiamo riuscendo a fare un sacco di cose insieme.

Noi non abbiamo la televisione e non parliamo quasi mai delle nostre preoccupazioni mentre siamo con nostro figlio. Emiliano sa che c’è una brutta influenza in giro e che per questo non si può andare a scuola, ma le ansie, le preoccupazioni, il concetto di epidemia o pandemia sono rimaste completamente al di fuori del suo raggio, anche perché non avrebbe alcuno strumento per poterli comprendere.

Stiamo quindi riuscendo a vivere queste settimane come un faticosissimo periodo organizzativo ma, perlomeno, non come una minaccia diretta. Certo, abbiamo la fortuna di vivere al di fuori delle zone rosse, e questo ci permette – cosa impossibile, purtroppo, per una famiglia di Codogno o Vo’ Euganeo – di tenere un po’ l’ansia fuori dalla porta di casa.

Ma il mondo bussa alla porta. Ieri, infatti, è venuto l’idraulico.
È apparso sul pianerottolo con una mascherina sul viso che gli copriva naso e bocca, perché queste erano le direttive della ditta. Emiliano l’ha guardato solo un secondo, e poi è tornato a giocare. A lui fanno paura i mostri della stanza buia, i ladri che possono entrare in casa, l’ombra del coniglio nero di un libro che non vuole mai farsi leggere, e lo shampoo negli occhi. Un estraneo che entra in casa con una mascherina chirurgica che gli copre mezza faccia? Non lo guarda nemmeno.

In questi giorni faticosissimi, forse questa è la cosa più bella che possiamo regalarci: guardare il mondo attraverso gli occhi dei figli che – se protetti – sono capaci di restituirci il valore delle cose. Perché, ha ragione Emiliano, è giusto avere fiducia negli altri. Ed è giusto avere paura dei mostri, ma non di una mascherina protettiva.

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[Fonte Wired.it]