Seleziona una pagina
martedì, Apr 27

La Rai vieta il blackface, grazie alle seconde generazioni e a Ghali



Da Wired.it :

Per anni il blackface ha spopolato in tv e al cinema, ma oggi la Rai ha promesso che non lo farà più.

Il caso più recente è stato lo scorso novembre. A Tale e quale show, programma del sabato sera di Rai1 in onda dal 2012, i concorrenti, alcuni vip o semi-vip giudicati da altri vip, si sfidano nell’imitare personaggi noti del mondo della musica attraverso l’interpretazione di canzoni conosciute al grande pubblico. In ogni puntata del talent vengono poi trasmessi video amatoriali inviati da telespettatori che fanno altrettanto. Non è un format italiano ma spagnolo, di cui sono autori Carlo Conti (anche conduttore) con Ivana Sabatini, Emanuele Giovannini, Leopoldo Siano, Mario D’Amico, Walter Santillo e Stefania De Finis. Lo share è in media del 18%. I concorrenti hanno a disposizione vocal coach e actor coach professionisti per realizzare l’interpretazione più fedele possibile. Ecco allora che per interpretare Good Times di Ghali l’attore Sergio Muniz trova la strada più semplice, ma anche la più sbagliata; anziché offrire un’imitazione, opta per la caricatura, ricorrendo al blackface. Ossia si fa truccare il viso di nero per sembrare afrodiscendente, come se questo bastasse a diventare Ghali. È già successo, ad esempio con le interpretazioni di Beyoncé, Louis Armstrong, James Brown, Whitney Houston e Grace Jones nello stessa trasmissione, che non lo ha certo inventato in quanto è una pratica diffusa a partire almeno dagli anni Trenta dell’Ottocento, che secondo alcuni studiosi potrebbe essere nata addirittura nel Quattrocento. 

Anche i migranti italiani, irlandesi, ebrei e tedeschi subirono per anni forme di pubblica derisione, ma nessuna ha avuto una vita lunga quanto quella del blackface, che ha iniziato ad essere messo seriamente in discussione a partire dalla nascita del Movimento per i diritti civili degli afroamericani negli anni Sessanta, quando film come Nascita di una nazione e La capanna dello zio Tom erano già patrimonio della storia del cinema.

Ciò che la maggior parte degli osservatori sembrano ignorare o non comprendere è che parodiare i neri per cinque minuti o per due ore in uno spettacolo non è tale e quale ad essere nero oggi, con tutti i rischi che continua a comportare, perciò il blackface è una pratica coloniale, razzista e irrispettosa. Sembra averlo capito David Byrne, che recentemente si è scusato su Twitter per aver utilizzato più di trent’anni fa il blackface nel video dei Talking Heads Stop Making Sense. Non ci pensano lontanamente Aldo, Giovanni e Giacomo che l’hanno invece usato in tempi recenti in Il ricco, il povero e il maggiordomo (del quale alcune associazioni chiesero il ritiro) o Christian De Sica, che l’ha usato almeno due volte (nel film Bellifreschi e nel videoclip della cover Bongo Bongo Bongo). Probabilmente tutti d’accordo nel dire che se l’hanno usato Fellini, Totò e Ugo Tognazzi e ancora prima Al Jolson, Bing Crosby, Judy Garland e Orson Welles senza apparenti cattive intenzioni, allora si potrà sempre continuare a proporlo. Del resto, anche l’ong Medici con l’Africa CUAMM ha fatto lo stesso nel 2009 truccando personaggi del mondo dello spettacolo e della cultura come Veronica Pivetti, Niccolò Fabi, Niccolò Ammaniti o Francesco Facchinetti per una sua campagna, e in molti trovano ancora oggi divertente la pubblicità delle caramelle Tabù che lo proponeva in fino al 1994. E se il premier canadese Justin Trudeau si è scusato nel 2019 di esserci cascato da giovane, non è successo lo stesso con Alitalia, che ha realizzato uno spot discutibile nello stesso anno, poi ritirato. Ma Ghali, nato a Milano da genitori tunisini, conosce bene la storia di questa pratica e rispetto al make up di Sergio Muniz ha spiegato in un video su Instagram: “il blackface è condannato ovunque specie in un anno come questo, in cui gli avvenimenti e le proteste sono stati alla portata di tutti” [—] Il blackface “è una cosa di cui lo spettacolo non ha bisogno. È nato per un motivo, serviva a qualcosa, ovvero lo scopo del Blackface era quello di denigrare le persone di colore, di dare una brutta impressione su di loro in America. Veniva usata per spaventare i bambini. Erano attori bianchi che si travestivano da persone di colore e compivano atti osceni. Tipo stupravano, violentavano, uccidevano, facevano cose bruttissime. […] Siamo gli unici che continuano a farlo quando la comunità nera più volte ha chiesto a questo programma di smetterla, ma continuano a farlo, senza mai spiegarlo” Ghali non è certo stato l’unico a sottolineare il razzismo intrinseco di questa prassi. Consapevoli del ‘ruolo culturale cruciale nell’orientamento dell’opinione pubblica e nella costruzione dell’immaginario collettivo proprio della tv pubblica, le associazioni Lunaria, Italiani senza cittadinanza, Arci, Cospe e Razzismo Brutta Storia avevano raccolto il malcontento degli afroitaliani in primis rivolgendo lo scorso gennaio un appello ai dirigenti Rai e a Carlo Conti perché nessuno potesse più concedersi un comportamento autoassolutorio dicendo “non sapevo”. Oggi le associazioni informano di aver ricevuto finalmente una risposta dal servizio pubblico:

“Nel merito della vicenda per la quale ci avete scritto, diciamo subito che assumiamo l’impegno – per quanto è in nostro potere – ad evitare che essa possa ripetersi sugli schermi Rai. Ci faremo anzi portavoce delle vostre istanze presso il vertice aziendale e presso le direzioni che svolgono un ruolo nodale di coordinamento perché le vostre osservazioni sulla pratica del Blackface diventino consapevolezza diffusa.”

Tanta gente ha parlato e non è stata ascoltata, diceva Ghali nel suo video. Per una volta, finalmente, è successo.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]