Seleziona una pagina
domenica, Nov 08

La regina degli scacchi è la serie del weekend, che s’ispira a Rocky e non lo diresti



Da Wired.it :

È il titolo Netflix del momento. Un adattamento che aspetta di accadere dagli anni ’80 e che alla fine è arrivato nella maniera migliore. Tra i suoi plus: i punti di contatto con la mitica saga sul pugilato, compresa l’idea cruciale che una vittoria possa cambiare una vita intera

Nonostante non lo sembri, La regina degli scacchi è una (mini)serie sportiva. Non ne ha l’azione, ma la struttura e gli snodi nevralgici sì. È insomma pensata come il modello aureo di qualsiasi film (e poi serie) sportivo: Rocky. Quel misto di alti e bassi, di motivazioni da trovare nella vita privata per affrontare grandi incontri e di scontri uno contro uno. Per l’intero ciclo di episodi, dunque, sono molti i punti di contatto con la saga di Rocky e su tutti regna l’idea cruciale che una vittoria può cambiare una vita intera. Vincere per dimostrare a se stessi di essere qualcuno.

La regina degli scacchi adatta il romanzo del 1983 di Walter Tevis in cui tanti avevano visto potenzialità per un film. Bernardo Bertolucci era uno di questi, Walter Hill un altro (probabilmente con un taglio completamente diverso) e circa 12 anni fa Heath Ledger ci stava lavorando, immaginandolo come un debutto alla regia. Quando l’attore è morto, è stato Scott Frank a raccogliere il testimone e a cominciare a lavorarci, dandogli tutto un altro giro.

Si tratta di una storia di continua ascesa fatta di mille stop e ripartenze, la costruzione di una campionessa lungo una parte di vita (da quando è bambina fino ai 20 anni) di una donna orfana, piena di piccoli grandi traumi e problemi, che tuttavia ha una predisposizione naturale per gli scacchi che la porta a essere un prodigio già da piccola, già minorenne. Di nuovo, è Rocky, qualcuno con una vita difficile, che però ha una forza d’animo invincibile che lo spinge a cambiare se stesso e il mondo che lo circonda.

Dietro a tutto c’è un uomo che è l’artefice dei film migliori degli ultimi 30 anni senza mai diventare noto, Scott Frank appunto. Nella sua carriera ha scritto roba come Out Of Sight, Minority Report, Io & Marley (solo chi l’ha visto sa che piccolo filmone sia) e Logan. In realtà, Frank si era innamorato dell’idea di una storia sulla fatica di essere un genio già nel 1991 nel suo copione d’esordio (Il mio piccolo genio, la prima regia di Jodie Foster), ma a detta dello stesso non gli riuscì bene; quel che aveva in mente era piuttosto qualcosa come La regina degli scacchi, una storia in cui la protagonista fosse anche l’antagonista. E ora l’ha potuta adattare rifiutando di fare un film e preferendo la serie.

Che poi in realtà La regina degli scacchi un vero antagonista ce l’ha, anzi un insieme di antagonisti. E di nuovo si torna a Rocky, all’idea che il nemico sconfitto (dopo esserne stati sconfitti una prima volta) diventi poi un amico e un mentore per le sfide successive, e che le motivazioni all’alba di un grande incontro arrivino da eventi come la morte di una pseudo figura paterna (senza contare il fatto che il finale sia un incontro nella Russia della Guerra fredda con il pubblico che passa dalla sua parte).

Ma quella di Rocky è davvero solo una struttura, su cui La regina degli scacchi crea tantissimo di originale, soprattutto nella relazione tra le squadre, l’atteggiamento degli avversari e il rapporto della protagonista con la droga (un’idea efficacissima specie all’inizio, quando da piccola diventa subito dipendente dalle pasticche: che immagine potentissima!). Ne è un buon esempio il personaggio della madre, che in un film sarebbe stata molto più vicina a uno stereotipo per mancanza del tempo necessario a svilupparlo bene, mentre nella serie non è mai ridotta, anzi. Piena di difetti, comprensiva eppure egoista, interessata al denaro ma non interamente, non è nulla di netto e tutto di sfumato, una donna complessa impossibile da condannare seppur evidentemente non altruista fino in fondo.

Fino a questo punto siamo tuttavia in un territorio che la tv e il cinema conoscono bene, la parte meno esplorata sono gli scacchi e la possibilità di creare tensione intorno a incontri e scontri in cui nessuno può capire niente, in cui nessuno del pubblico sa come stiano andando. Scott Frank rinuncia all’idea più semplice e scontata, cioè avere un telecronista che spieghi tutto oppure qualcuno nel pubblico che commenti le mosse dandoci indizi sull’andamento delle sfide, e sceglie la più impervia: zero indizi, solo tensione per la posta in palio ogni volta altissima e una precisione tale da non suonare mai falsa.

La precisione delle partite è essenziale per creare quella perversione per qualcosa di gestito in modo così magistrale, di così sofisticato da essere calamitante anche se incomprensibile, il piacere di vedere un gesto ai massimi livelli. Ci sono Bruce Pandolfini e Gary Kasparov, due dei massimi maestri di scacchi in vita, dietro questa precisione. Nessuna delle partite che si vedono, nemmeno quelle lontane, hanno pezzi messi a caso, tutto è basato su vere partite plausibili e autentiche mosse. E le partite che giocano i protagonisti sono coreografate in modo estremamente preciso. Coreografie imparate a memoria dagli attori, che hanno anche imparato a prendere in mano i pezzi. Perché, come per tutte le attività, dopo anni di pratica il gesto diventa perfetto per quanto semplice e qualunque maestro distingue un amatore anche solo da come tocca gli scacchi. Così qualcosa di oscuro diventa appassionante. Disponibile su Netflix.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]