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giovedì, Mag 14

La seconda giovinezza di The Office, la serie che ci ha insegnato a resistere



Da Wired.it :

A 15 anni dalla sua prima messa in onda, la serie comedy di Nbc sui nonsense della vita da ufficio non è mai stata così attuale (e famosa, anche alle nostre latitudini): forse perché con la pandemia tutti abbiamo dovuto imparare a fare passare giornate diventate lunghe e noiose

Quando Maurizio Molinari, novello direttore di Repubblica, ha annunciato urbi et orbi la creazione del “Premio del direttore per il miglior giornalista della settimana” di Largo Fochetti – 600 euro lordi in busta paga e “una R stilizzata con il nome del vincitore” – nella mente di noi lettori si sono affastellati riferimenti comici ineludibili: un po’ il Fantozzi del “bel direttore”; un po’ Beppe Grillo (che però, quando istituiva con altri fini la rubrica del Giornalista del giorno sul suo blog, di comico aveva ormai ben poco); un po’, però, anche lo scalcagnato e adorabile responsabile di filiale di un’oscura azienda produttrice di carta, il Michael Scott di The Office, con volto prestato da una delle più geniali facce di gomma del cinema americano, Steve Carell.

Nell’episodio The Dundies, il primo della seconda stagione della serie Nbc trasmessa tra il 2005 e il 2013, Michael si trova al centro di un capannello di suoi impiegati della grigia cittadina di Scranton, nella suburbia della Pennsylvania. Tutti hanno i musi lunghi, sapendo che sta per arrivare una delle ricorrenze che più detestano: i Dundies, appunto, una serata di premiazione in cui il loro straripante capo tenterà di intrattenerli con imbarazzanti performance canore e terribili battute che non fanno ridere neanche per sbaglio. Eppure Scott è entusiasta – è un entusiasta per natura, con la mente di un ragazzino di dodici anni – e alla fine sbotta: “What the hell, everybody! I mean, God, the Dundies are about the best in everyone of us! Can’t you see that?”.

Non è dato sapere se Maurizio Molinari abbia intenzione di tenere una cerimonia di premiazione nella misera cornice in penombra di un ristorante tex-mex come il Chili’s di Scranton, e oltre alla R abbia pensato anch’egli a statuette per i fortunati vincitori, ma di certo il mockumentary di Nbc di questi tempi vive una seconda giovinezza: tantissimi si sono trovati, a 15 anni dalla prima messa in onda, a trascorrere spezzoni di venti minuti di risate sentite per il titolo prodotto da Greg Daniels (già nume del Saturday Night Live e dei Simpson, tra le altre voci nel cursus honorum), adattato a partire dalla serie britannica firmata da Ricky Gervais e andata in onda su Bbc a cavallo del nuovo millennio.

Da una parte potrebbe essere soltanto una coincidenza fortunata – se così si può chiamare l’incontro tra una pandemia con conseguente lockdown globale e la ripubblicazione su Amazon Prime Video di una serie tv girata quasi interamente indoor, tra brutte scrivanie, veneziane, stupidi portapenne e ingombranti telefoni da ufficio – ma forse c’è anche dell’altro, e quell’altro si chiama improvvisazione, o forse ostinata tenacia nell’abitudine.

Riavvolgiamo un secondo: in quel prodigio di casting che è The Office, un ufficetto di un’aziendina di provincia lotta per portare a termine le sue giornate, fatte più che altro della noia, l’improduttività, le frustrazioni e gli insondabili nonsense del lavoro d’ufficio. A rendere tutto peggiore c’è un altro tassello che non suonerà nuovo a nessuno: un capo inetto, vanaglorioso e che – non bastasse – crede di essere divertente. Sembra l’inferno in Terra, ma non è quel che sembra: col passare delle puntate Michael Scott si rivela sì un bambino egoista e unfit to lead, ma anche un commovente cuore d’oro, che pensa genuinamente di avere intorno a sé una famiglia di amici, più che meri colleghi (anche se questi ultimi non lo ricambiano) e crede davvero che la Dunder Mifflin, che produce carta e ha la sua sede a New York, si interessi di lui come a un figlio. Ogni volta che la realtà lo mette davanti a una situazione del tutto diversa, oltre alla fremdschämen su cui è costruita l’intera serie non si può non provare empatia per il tragico e sincero regional manager in cerca d’autore.

Attorno a lui c’è una serie di comprimari da Emmy: Dwight Schrute (Rainn Wilson) vive in una fattoria dedita alla coltivazione di barbabietole, anela il potere ed è un riuscitissimo, fenomenale incrocio tra Rambo e un amish spietato; Jim Halpert (John Krasinski, poi regista di A Quiet Place) è il bravo ragazzo, serve da spalla seria per le gag comiche di Michael e Dwight e mette in scena una delle più belle storie d’amore viste in tv negli ultimi vent’anni, quella con la segretaria e poi venditrice Pam Beesly (Jenna Fischer), placido e inizialmente piatto spirito guida dell’ufficio; Angela Martin (Angela Kinsey) è una gattara sociopatica che detesta tutto e tutti e presiede il Comitato per l’organizzazione delle feste di compleanno; Stanley Hudson (Leslie David Baker), è lo scontroso addetto vendite più seccato dai dad jokes del suo capo (anche perché spesso hanno a che vedere in modo surreale col suo essere di colore); B. J. Novak – che è anche tra gli sceneggiatori, i registi e i produttori della serie – interpreta Ryan, lo stagista rassegnato che divenne re. E si potrebbe continuare con grande piacere: i personaggi sono tridimensionali, e pur nelle loro caratterizzazioni estremizzate risultano più verosimili del vero.

Come hanno raccontato i loro stessi interpreti, questo ha a che fare anche con l’essersi trovati alle prese con la candy bag. La premessa della serie è che un’innominata troupe sta girando un documentario sulla filiale di Scranton della Dunder Mifflin: ogni personaggio ha quindi uno spazio per sé in cui parla direttamente con l’intervistatore, come in una specie di confessionale. In questi momenti di effetti comici spesso esilaranti per giustapposizione, gli attori hanno dovuto destreggiarsi tra il copione a loro assegnato, una serie di battute alternative – contenute appunto nella detta borsa delle caramelle – e la totale improvvisazione: è da questo amalgama che sono venute fuori alcune delle cose migliori dello show. Jenna Fischer l’ha spiegato indicando al New Yorker l’episodio The Injury, il suo momento preferito di Steve Carell in versione tête-à-tête, in cui il prode Michael giustifica guardando in camera l’essersi procurato un’ustione al piede perché è inciampato sulla griglia che tiene accanto al letto per fare colazione col bacon.

Tornando ai motivi del ritrovato successo postumo, quindi, viene da pensare che è possibile che il momento in cui il mondo intero ha dovuto fare i conti con l’improvvisazione di nuove abitudini, spesso cercando antidoti a giornate diventate all’improvviso interminabili, l’insegnamento migliore sia venuto da un gruppo di impiegati tediati e scontenti, che in fondo hanno fatto della loro capacità di sopravvivere agli imprevisti la cifra stilistica delle loro esistenze. “Prima di fare qualsiasi cosa”, dice Dwight in un episodio all’anonimo intervistatore, “mi chiedo: un idiota lo farebbe? Se la risposta è sì, non lo faccio”.

E poi, ovviamente, si ride. Moltissimo, per buona parte delle nove lunghe stagioni portate in scena, che nel 2006 sono valse a The Office un Emmy per la Outstanding Comedy Series e un successo di critica con pochi precedenti nella storia della commedia. Si ride se si conoscono appena gli infiniti labirinti della burocrazia sul lavoro, ma anche se si è mai frequentata una qualsiasi cittadina di provincia (che è uguale a ogni latitudine, nella sua essenza), o semplicemente si ha mai dovuto convivere con persone difficili – ancorché fondamentalmente buone – o sogghignare di fronte a pessima ironia à la That’s what she said, per buon cuore verso chi vuol essere apprezzato, per calcolo o per obbligo. Greg Daniels e Ricky Gervais hanno dimostrato che la monotonia dell’ufficio è una piccola e grande metafora di quella inevitabile della vita: se nella versione britannica della serie non c’era spazio per molto altro che la decostruzione delle angherie del workplace, la catarsi nella versione americana è completa: nonostante quel penoso arredamento di quart’ordine in un grigio centro della Pennsylvania, persino Michael e i suoi riescono a cambiare le cose, dimostrando che c’è vita oltre la fotocopiatrice.

La mia scena preferita si trova nella decima puntata della terza stagione, Goodbye My Lover: Michael Scott è appena stato lasciato da Carol (Nancy Carell, la vera moglie di Steve), si trova nel suo ufficio, accanto a una tazza con su scritto “World’s Best Boss” che appare addirittura più triste del solito. Dwight entra all’improvviso e lo trova intento ad ascoltare il ritornello della canzone di James Blunt, Goodbye My Lover: è solo l’anteprima di pochi secondi, ma il capoufficio la riproduce in continuazione, con gli occhi sbarrati. Allora Dwight, con tutto il tatto di cui è capace, gli chiede: “Perché non compri la canzone intera e basta?”. E lui, senza staccare lo sguardo dallo schermo del computer, in una di quelle scene che immagino provate dozzine di volte per trattenere le risate: “Non ho bisogno di comprarla. Mi basta un assaggio”.

Riportandoci al peggior idealtipo di luogo di lavoro, nell’epoca dello smart working, The Office riesce addirittura a farci provare una strana nostalgia per tutte quelle giornate passate tra fotocopiatrici e note, in compagnia degli sconosciuti con cui dividiamo l’esistenza.

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[Fonte Wired.it]