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martedì, Lug 09

La storia di Giuseppe Uva, ora che se ne riparla


Uno dei casi più discussi di morti dopo un fermo in caserma si è chiuso con l’assoluzione dei poliziotti in Cassazione. Dalla scomparsa dell’operaio varesino sono passati 11 anni

Il processo sulla morte di Giuseppe Uva, l’operaio 43enne di Varese morto il 14 giugno 2008 su un letto d’ospedale dopo essere stato trattenuto per alcune ore in una caserma, si chiude senza colpevoli. La Cassazione ha confermato l’assoluzione per i sei poliziotti e i due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona. Le motivazioni della sentenza verranno rese note tra un mese circa.

Luigi Empirio, uno degli imputati nel processo, ha detto all’Adnkronos che con questo verdetto finiscono “undici anni di vita distrutta e dignità rovinata”.

È probabile però che il processo continui a Strasburgo. “Ci rivolgeremo alla Corte europea dei diritti dell’uomo”, ha commentato Fabio Ambrosetti, il legale che assiste la famiglia Uva, da sempre convinta che l’uomo sia morto a causa di un abuso di forza messo in atto dalle forze dell’ordine. “Una sentenza rimane sbagliata anche se confermata in Cassazione”.

All’udienza erano presenti anche Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, e il suo legale Fabio Anselmi. “Sono addolorata. Non ho gli strumenti per capire ma posso dire che non dimenticheremo Giuseppe”, ha detto Cucchi.

La storia di Uva ha, in effetti, diversi punti in comune con quella di Stefano Cucchi: l’operaio varesino morì dopo un controllo in caserma e quando ai familiari venne riconsegnato il suo cadavere, il corpo era pieno di lividi e ferite. Un aspetto che portò la famiglia ad accusare le forze dell’ordine di averlo ucciso. Mentre sul caso Cucchi, però, si sta ancora cercando di fare chiarezza, quello che riguarda Uva sta volgendo al termine con un’assoluzione per le forze dell’ordine. Secondo i giudici, l’operaio è morto a causa di una patologia cardiaca e per lo stress causato dal fermo e dallo stato di ebrezza in cui si trovava. I carabinieri e i poliziotti, in questo senso, non avrebbero colpe.

La morte di Giuseppe Uva

Giuseppe Uva morì alle 10 circa del mattino del 14 giugno 2008. La notte prima aveva bevuto e fumato e, verso le 3 circa, aveva iniziato a spostare alcune transenne in Via Dandolo, in centro a Varese. I residenti, infastiditi dagli schiamazzi, avevano avvertito le forze dell’ordine. Sul posto erano arrivate tre volanti: una dei carabinieri, una della polizia di stato, arrivata dopo la richiesta di rinforzi della prima, e un’altra, sempre della polizia.

Uva era arrivato in caserma intorno alle 3.50 circa insieme all’amico Alberto Biggiogero, con cui si trovava quella sera. Alle 4.11, stando ai verbali, sul posto era arrivata la Guardia medica, allertata dai carabinieri, che aveva deciso di sottoporre Uva a un Trattamento sanitario obbligatorio. Alle 5.45 circa Uva era stato trasferito in ospedale.

Lucia Uva, sorella di Giuseppe, ha ripetuto spesso in questi anni che nel 2008 stentò a riconoscere suo fratello all’obitorio. Sul naso c’era un grosso livido, così come in corrispondenza di una mano, mentre vicino al capo non aveva potuto fare a meno di scorgere un grande rigonfiamento. A farle più impressione, a suo dire, fu però la parte inferiore del corpo, coperta con una sorta di pannolino per adulti: i testicoli del fratello erano tumefatti, e dall’ano fuoriusciva una traccia di sangue.

Il processo Uva

Il primo processo si è chiuso a metà del 2012 con l’assoluzione di un medico, accusato di omicidio colposo, e la richiesta ad Agostino Abate, il magistrato che seguiva il caso, di continuare le indagini.

Il giudice dell’istruttoria, in particolare, voleva sapere perché Giuseppe Uva era stato portato in caserma, visto che per gli schiamazzi notturni è prevista solo una multa; perché non era stato fatto un verbale d’arresto; perché l’operaio era stato trattenuto così a lungo e, soprattutto, cosa era successo tra il fermo e il ricovero in ospedale.

Nel 2013, una prima svolta. Per la prima volta, dopo cinque anni dalla morte di Giuseppe Uva, la procura ha ascoltato Alberto Biggiogero, l’amico di Uva che era con lui la sera del fermo. Il colloquio è andato avanti per quattro ore. Biggiogero ha raccontato che quella sera uno degli agenti aveva detto all’operaio “proprio te cercavo, Uva” perché l’operaio si vantava di aver avuto una relazione con sua moglie; che i carabinieri avevano picchiato Uva prima di caricarlo in macchina e, probabilmente, anche in caserma poiché lui aveva sentito l’amico, chiuso in un’altra stanza con gli agenti, gemere di dolore. Aveva quindi chiamato un’ambulanza, ma in caserma non era arrivato nessuno. Il 118, stando alle deposizioni, aveva richiamato i carabinieri, ma questi ultimi avevano riferito che non c’era bisogno di aiuto (la conversazione tra Biggiogero e il 118 era poi stata confermata ed era agli atti).

La testimonianza dell’uomo è stata in parte confermata da un medico. Durante il ricovero, avrebbe sentito l’operaio dire “mi hanno picchiato”. Sono stati indagati sei carabinieri e due poliziotti per omicidio preterintenzionale ma ad aprile 2016 il nuovo processo si è chiuso con l’assoluzione. Nel 2018, la sentenza è stata confermata anche in appello: secondo i giudici, le forze dell’ordine non hanno colpa e le ferite sul corpo dell’operaio sarebbero dovute ad atti di autolesionismo causate da una “tempesta emotiva”, frutto dello stress e dallo stato di ebrezza in cui si trovava la vittima.

Un iter giudiziario complesso

Il verdetto della Cassazione arriva dopo un iter giudiziario molto complicato. Il giudice incaricato di seguire il caso è stato sottoposto ad un’azione disciplinare con l’accusa di non aver indagato a dovere sulla vicenda (si era sempre concentrato su quanto successo dopo l’arrivo in ospedale, tralasciando eventuali responsabilità di polizia e carabinieri).

Negli anni, poi, Biggiogero ha ritrattato in parte la sua testimonianza e dimenticato alcuni “fatti gravissimi” che lui stesso aveva denunciato. Secondo il pubblico ministero Daniela Borgonovo, le contraddizioni si devono alla sua tossicodipendenza e al fatto che, il giorno del fermo anche lui fosse in condizioni psicofisiche alterate. Nel 2017, inoltre, è stato indagato per omicidio dopo aver accoltellato il padre al termine di una lite.

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