Quello che si muove attorno a Trump è una parodia di Ka-tet: un’aggregazione temporanea e interessata, fatta di alleanze contingenti tra influencer suprematisti, broligarchi che si sfogano in gruppi su Signal, milizie composte da radioamatori. Non c’è comunione, solo convergenza di interessi. È l’ombra del concetto originario.
Come nel mondo andato avanti, anche qui le parole non significano più. “Libertà”, “patriottismo”, “verità”, “vita”, “natura”: tutto è usato come contenitore vuoto, caricato di senso emotivo e sparato come un’arma.
L’infanzia corrotta
Stephen King ha sempre mostrato l’infanzia come campo di battaglia. In It, in Stand by Me, ne L’Istituto, in Cuori in Atlantide, i bambini sono quelli che vedono prima, sentono il male, lo riconoscono. Ma sono anche i primi a venire sacrificati.
Nell’America di Trump, il tema dell’infanzia corrotta si declina in forma politica: il sogno americano viene trasformato in un culto regressivo. Ogni nostalgia diventa tossica. Il bambino ideale del MAGA non sogna: marcia. Non si fa domande: si addestra. Non cresce: obbedisce pensando di ribellarsi.
Qui il male non ha più la forma di un clown, ma quella di una macchina narrativa che toglie complessità e restituisce solo slogan confortanti.
The Stand e la divisione
In The Stand, l’altro grande affresco apocalittico di King, l’umanità sopravvissuta si divide tra chi vuole ricostruire una comunità e chi vuole dominare. Da un lato Randall Flagg, il demone sorridente che promette ordine attraverso la paura. Dall’altro una piccola Ka-tet spaesata, non eroica, ma resistente.
È un’immagine che torna. La scelta, oggi come allora, non è tra sinistra e destra. È tra chi crede nella complessità e chi la rifiuta come fastidio. Tra chi vuole imporre una narrativa unica e chi accetta di vivere in un mondo contraddittorio e irrisolto.
Miti migliori
Il punto, allora, non è opporsi con i fatti. Il trumpismo, come la Torre Nera, non è una questione di verità: è una questione di mito. E i miti non si combattono con dati, ma con altri miti — più generosi, più aperti, più fertili.
Serve una Ka-tet nuova, fluida e inclusiva, capace di vedere il gioco, di smascherare il loop, di sottrarsi al fascino della ripetizione. Una Ka-tet che agisca nei territori ibridi: piazze e social, aziende e parchi, università e stadi. Una comunità temporanea ma intenzionale, che non cerca la Torre per dominarla, ma per disattivarla.
Una Ka-tet che non salva il mondo con una spada, ma lo decodifica con uno sguardo attento, e poi lo riscrive. Insieme.