Seleziona una pagina
giovedì, Set 03

Lacci, la discutibile apertura di Venezia 2020



Da Wired.it :

Il lavoro di Daniele Luchetti racconta di coppie in rovina tra litigi plateali, esplosioni di rabbia spaventose e fracassi di oggetti a terra. Peccato resti sospeso nella sua ordinarietà. Insomma, niente a che vedere con i film che hanno battezzato le precedenti edizioni del Festival

L’ombra di quel che eravamo. Si potrebbe prendere in prestito il titolo evocativo di Luis Sepúlveda per rinominare il film che ha aperto la 77ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, Lacci di Daniele Luchetti. È tratto a sua volta dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, che con il suddetto libro di Sepulveda c’entra poco, eppure racconta l’ombra di ciò che i protagonisti erano. Una coppia normale. Di quelle che amano, ridono, piangono, litigano, fanno l’amore, magari si tradiscono o magari no, magari si sopportano, magari no, ma tengono fede al patto. Quando il patto si rompe, tutto crolla e arriva puntuale quello che il film, come il romanzo, definisce  labes. Dal latino: rovina, disastro, crollo. Da quel momento in poi tutto diventa irrecuperabile.

Racconta questo il film d’apertura di Venezia 77, italiano doc firmato dal cineasta del più intenso e memorabile La nostra vita. A interpretarlo, le strane coppie Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher, Silvio Orlando e Laura Morante, Adriano Giannini e Giovanna Mezzogiorno, con la piacevole incursione di Linda Caridi. Luchetti raccoglie la densa materia narrativa ed emotiva delle pagine di Starnone per realizzarne un lavoro familiare e sentimentale, spesso urlato, con scene a cui un certo cinema nostrano ci ha abituati: litigi plateali, esplosioni di rabbia spaventose, fracassi di oggetti a terra, e nel mezzo aforismi tra il semplice e il banale sparsi qui e là. Manca, per tutta la prima metà del film (quella che racconta la gioventù dei protagonisti), l’ironia feroce e amara che permea tutto il romanzo – raffinato, magnetico, imperdibile – di Starnone. Nella seconda metà, quando il testimone interpretativo e narrativo viene affidato alla coppia Silvio Orlando – Laura Morante, la pellicola cambia tono e andamento, un sottile humor nero inizia finalmente a spuntare e anche la regia si fa più interessante, proponendo un racconto che danza su più linee temporali, tra flussi di coscienza presente e cocci di ricordi passati.

Chi scrive, oltre al romanzo di Starnone, ha avuto modo di apprezzare anche la trasposizione teatrale del libro, a opera di Armando Pugliese. Protagonista sempre Silvio Orlando, a dir poco perfetto per il ruolo di un uomo non passivo, ma forse solo maledettamente lento. A capire se stesso e gli altri, a sentirsi padre e marito, a crescere, a stare al mondo. Una lentezza insieme colpevole e innocente, una dolenza simpatica e detestabile che Orlando riesce perfettamente a restituire, firmando l’ennesima performance degna di nota. Laura Morante non è da meno, anzi fa riacquistare carisma e spessore a un personaggio, Vanda, descritto rohrwacheramente come troppo fragile e vulnerabile, là dove dalle pagine del libro vibrava invece una tigre ferita di rara forza evocativa.

Mezzogiorno e Giannini, figli d’arte nella realtà, danno voce, corpo e rabbia ai figli maltrattati della storia, con un’intensità che convince ma non riesce a risollevare le sorti di un film che resta sospeso nella sua ordinarietà e lascia interdetti circa la sua scelta: gli ultimi titoli d’apertura della Mostra, da 10 anni a questa parte, hanno scritto la storia del cinema contemporaneo. Da Il cigno nero di Darren Aronofsky a Gravity di Alfonso Cuarón, da Birdman di Alejandro González Iñárritu a La La Land di Damien Chazelle, fino agli ultimi First Man dello stesso Chazelle e Le verità di Hirokazu Kore’eda, che pure era un film lontano dalla spettacolarità di Hollywood e incentrato sui legami famigliari, ma di ben altro respiro e visceralità.

Potrebbe interessarti anche





[Fonte Wired.it]