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martedì, Dic 24

Le 10 migliori serie tv del decennio


In questa nostra top 10 (+1) non possono di sicuro mancare Better Call Saul, Black Mirror, BoJack Horseman e Game of Thrones

Gli ultimi dieci anni hanno visto cambiamenti epocali nell’ambito della serialità televisiva. L’avvento delle piattaforma di streaming, in primis Netflix, ha sparigliato il sistema di produzione e distribuzione, aprendo a nuove possibilità espressive, soprattutto rimettendo in campo anche altri mercati internazionali (come quello italiano) e dando nuovo slancio anche ai progetti dei player già esistenti. In generale, fra il 2010 e il 2019 abbiamo assistito a un ravvivarsi dei talenti, delle sperimentazioni, dei generi che spesso si sono fusi e sovrapposti, con un’attenzione alle realtà (magari anche trasfigurata nel fantasy o esasperata nella distopia) che ha reso le serie tv un mezzo di racconto del presente.

Ecco le migliori dieci serie di questi ultimi anni Dieci, sebbene la scelta degli esclusi sia stata davvero molto ardua.

Better Call Saul

Se Breaking Bad, con la storia di un professore malato terminale diventato spietato produttore e spacciatore di metanfetamina, ha abitato gli anni Dieci solo per poco (è finita nel 2013), questo non vuol dire che non li abbia segnati con altrettanta potenza. Al di là dei vari tentativi d’imitazione e anche del (riuscito?) film sequel El Camino, è al suo spin-off prequel Better Call Saul che dobbiamo la sopravvivenza di un’influenza culturale e tematica indiscussa: la trasformazione dell’avvocato Jimmy McGill che, discendendo negli inferi della propria frustrazione, muta nell’affarista senza scrupoli Saul Goodman, è una parabola umanissima di sconcertante verità, condotta con uno sviluppo impeccabile e spietato, anche grazie alla recitazione fenomenale e sfumatissima di Bob Odenkirk (e non da meno sono i suoi comprimari). Un esempio da manuale di come si produca uno spin-off, ma soprattutto di come siano stati anni, questi, portati avanti da personaggi mai facilmente incasellabili e pronti alle trasformazioni più radicali e inaspettate.

Black Mirror

Fin dal primissimo episodio (quello del primo ministro inglese e del maiale), la serie antologica Black Mirror ha raccontato e commentato i nostri tempi cupi attraverso la lente distorta della tecnologia e del digitale. Nelle creazioni disturbanti di Charlie Brooker e Annabelle Jones ci sono tutti i temi inquieti e inquietanti che ci circondano: dalla protezione della privacy alla fine della vita, dal controllo di massa alla spersonalizzazione… tutti riletti ed estremizzati in storie che spesso ci proiettano nel futuro, ma che in realtà sono ancorate a un presente vicinissimo, grazie a profezie ambigue ma estremamente familiari. La forza di una produzione come questa è anche quella di lanciare una sfida allo spettatore, in fatto di riflessione e messa in dubbio dello status quo. Non è un caso che proprio in seno a Black Mirror sia nato il primo esempio di serialità interattiva, Bandersnatch, probabilmente destinato a divenire un apripista degli anni a venire.

BoJack Horseman

Sebbene con dispiacere, forse non è un caso che gli ultimi episodi in assoluto di BoJack Horseman vadano in onda nel gennaio 2020: a chiusura di un’epoca. La serie animata di Raphael Bob-Waksberg non ha solo ridefinito i canoni del genere in sé, ma l’ha elevato – in termini di qualità e considerazione – allo stesso livello delle produzioni in carne e ossa. Estetica virtuosistica e allucinata, personaggi travagliati e commoventi, archi narrativi bizzarri eppure pregnanti dei tempi che viviamo, senza dimenticare la satira caustica e sottile sul mondo dello spettacolo e dei media che così tanto ha mostrato le sue vulnerabilità: la storia dell’ex star delle sitcom, il cavallo antropomorfo BoJack, e di tutti gli strambi e irrisolti personaggi, che gli gravitano intorno è questo e molto di più. Difficile congedarsi da loro, sebbene incarnino alla perfezione un decennio che ci lasciamo volentieri alle spalle.

Fleabag

Che sia quella per i porcellini d’India o per i preti molto affascinanti (uno in particolare), Fleabag è una serie sulle ossessioni. E, in effetti, anche gli spettatori stessi sviluppano una specie di ossessione quasi mistica nei confronti della creazione di Phoebe Waller-Bridge, qui protagonista ma soprattutto autrice finalmente consacrata nell’empireo (e che, nel frattempo, ci ha regalato anche Killing Eve). Perché Fleabag fa alla perfezione una cosa che finora paradossalmente nessuno si era mai azzardato a fare: raccontare con realismo e accuratezza una donna dei giorni nostri, semplicemente con tante contraddizioni e una ricchezza interiore non priva di tendenza all’autodistruzione. Sicuramente uno dei personaggi più dirompenti e rappresentativi del decennio.

Game of Thrones

È finita come sappiamo, forse risvegliandoci da un sogno durato quasi dieci anni con un incubo frettoloso e approssimato. Ma non si può negare che, nonostante l’ottava stagione, Game of Thrones sia stata forse la serie più rappresentativa degli ultimi dieci anni, arrivando a infrangere tutti i record possibili immaginabili e cambiando in definitiva la televisione. Quello che sembrava un titolo fantasy di poche pretese, tratto dalla saga mai completata di George R. R. Martin, è divenuta un’epica televisiva capace di modellare la cultura popolare e rivaleggiare con il cinema. Lo sprezzo con cui venivano trattate le morti dei personaggi, la violenza assoluta e storyline apparentemente marginali che poi ribaltavano il destino di tutta Westeros hanno tenuto incollati allo schermo milioni di telespettatori in ogni angolo del mondo, forse regalandoci l’ultima esperienza di visione davvero collettiva e condivisa prima dell’avvento definitivo dello streaming seriale.

Gomorra

Se il romanzo-inchiesta Gomorra aveva trasformato il suo autore, Roberto Saviano, in uno dei testimoni fondamentali e suo malgrado più controversi della nostra epoca, la serie tv che Sky ne ha tratto a partire dal 2014 ha segnato a sua volta lo scorso decennio fungendo in qualche modo da spartiacque. Dopo tentativi precedenti pur di qualità (Boris, Romanzo Criminale), la produzione inaugurata da Stefano Sollima ha dimostrato la capacità italiana di competere a livello qualitativo sul mercato internazionale, confezionando un dramma criminale capace di lavorare sui registri più intimi così come su quelli più esteriori. Ne è nata una saga che, anche grazie a personaggi e interpreti come Ciro l’immortale/Marco D’Amore o Genny Savastano/Salvatore Esposito, ha saputo appassionare pur affondando le mani nel cuore più melmoso e dolente di una realtà di degrado, marginalità e criminalità nostrana, dimostrando anche, con le inutili polemiche che ha suscitato, la sua centralità nel discorso pubblico.

The Handmaid’s Tale

Molte serie hanno tentato di riportare al centro la narrazione veritiera e spesso drammatica della vita femminile. Poche, però, sono riuscite a raccontare la violenza che anche oggi permea i nostri tempi nei confronti delle donne come The Handmaid’s Tale. Merito di una fonte di partenza già potentissima, il romanzo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (di cui in questi mesi è uscito il seguito), questa serie è riuscita a dare una forma visiva curatissima a un regime totalitario che spoglia le donne dei loro diritti essenziali e le trasforma in meri corpi da riproduzione. La creazione di un consenso malato e la ferocia con cui la società assoggetta queste persone sono esagerazioni distopiche, che sembrano però trasposizioni neanche troppo velate dei tentativi che anche ai giorni nostri si stanno consumando in più parti del mondo. Nonostante il fuoco iniziale si sia man mano affievolito nel corso delle altre due stagioni, The Handmaid’s Tale è una testimonianza fondamentale di come le serie possano aiutare a capire i tempi.

The Leftovers

Prima di portare alle estreme conseguenze le capacità narrative dell’adattamento fumettistico in Watchmen, Damon Lindelof, cresciuto nella scuola di Lost, aveva sfornato per Hbo un gioiellino forse mai troppo apprezzato come The Leftovers: uno strano fenomeno causa la scomparsa del 2% della popolazione mondiale, lasciando i sopravvissuti a confrontarsi con la perdita ma soprattutto col senso di colpa della sopravvivenza. L’elaborazione del lutto diventa, però, pian piano un pretesto per parlare di temi ancora più grandi, come la fede, il destino, la comunicazione e l’amore, polarizzando l’arco dei personaggi fra un nichilismo senza scampo e un fervore estremista. Anche qui le possibilità del racconto vengono tirate all’inverosimile, con cambi di ambientazione e di piani temporali arditi e improvvisi, ma l’effetto di disorientamento – e anche di meraviglia – che ne risulta è più filosofico che televisivo.

The Oa

Terminata brutalmente alla seconda stagione, prima che potesse (forse) trovare il suo compimento narrativo, e spesso anche criticata dagli spettatori sfiniti per le sue continue derive, The Oa è uno dei prodotti televisivi più straordinari e al contempo – appunto – frustranti degli ultimi anni. Onirica, mistica, assurda, esistenzialista, metamorfica, imprevedibile e spesso puramente insensata: la serie di Britt Marling e Zal Batmanglij è una sfida alla comprensione e alla sensatezza, ma anche ai limiti delle capacità espressive e dei generi predefiniti, oltre che una variegata indagine dei vari meandri della marginalità e della metanarrazione. Ora come ora non sapremo mai se la più volte rediviva Prairie fosse effettivamente una truffatrice o meno, se c’era effettivamente una spiegazione per quella piovra gigante sessualmente eccitata e a che cosa preludesse quel colpo di scena alla fine della seconda stagione; eppure c’è da essere grati di aver potuto assistere a un esperimento così sfrontato e pieno di possibilità.

Stranger Things

Non si può parlare dello scorso decennio in termini di serie tv senza ammettere che Netflix abbia rivoluzionato se non sparigliato l’intero contesto produttivo e di fruizione. Ma se titoli pionieri alla House of Cards e Orange Is The New Black hanno dimostrato come fin da subito la piattaforma di streaming fosse in grado di cambiare le carte in tavola con risultati di estrema e coraggiosa qualità, è con Stranger Things che è riuscita a entrare prepotentemente nella cultura popolare. Le avventure dei ragazzini di Hawkins alle prese con i mostri del Sottosopra ci hanno conquistato con un’universalità senza tempo e con un astuto gioco di citazioni nostalgiche degli anni Ottanta, dimostrando come l’intrattenimento puro possa essere una raffinata elaborazione dell’immaginario collettivo, cogliendo al contempo inquietudini profonde di tempi decisamente incerti.

Bonus: Mad Men

Anche se è vero che Mad Men ha esordito con un vero e proprio exploit alla fine degli anni Duemila, confermando una specie di ennesima rinascita della serialità americana, non si può dire che abbia traghettato proprio quella stessa rinascita all’interno degli anni Dieci. Sebbene le ultime stagioni dimostrassero uno smalto e un graffio ben più incerti, la conclusione, con il congedo di personaggi come il forse irredimibile Don Draper, ha dato la prova di quanto questa serie fosse uno spaccato intrigante di umanità proprio dove l’umanità sembrava estranea. Il mondo dei pubblicitari anni Sessanta, riprodotto impeccabilmente a livello estetico, è rappresentato come un mondo di squali amorali (sia uomini sia donne, anche se qui spesso fagocitate dalla realtà) che deve, però, a un certo punto fare i conti con le proprie crepe inevitabili. E i momenti finali, sfumati e ambigui come solo l’epilogo di questa serie poteva essere, sono comunque uno spaccato suggestivo di come  la vita e la creatività si saldino al lavoro e viceversa.

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