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lunedì, Ott 14

Le bimbe geneticamente modificate con Crispr non rischiano di morire prima del tempo (forse)


Nature Medicine ritira lo studio che suggeriva che i bambini con Ccr5 modificato in laboratorio avevano maggiore rischio di morire prematuramente: un grave errore nel metodo ha falsato i risultati

crispr
(immagine: Getty Images)

Come non detto: i bambini modificati con Crispr per essere immuni all’hiv non hanno maggiori probabilità di morire entro i 76 anni rispetto al resto della popolazione. Cioè, in realtà sarebbe più corretto dire che non si sa, ma lo studio che lo insinuava (pubblicato su Nature Medicine non più tardi di giugno scorso) è stato ritrattato per via di un grave errore nel metodo di analisi, che ha portato i ricercatori a trarre conclusioni sbagliate. A contraddire quei risultati oggi ci sono altri tre studi in fase di pre-pubblicazione ma disponibili sulla piattaforma biorxive.

Riassunto delle puntate precedenti

Nel novembre 2018 il ricercatore cinese He Jiankui ha annunciato di aver permesso la nascita dei primi bambini geneticamente modificati con Crispr. Con l’obiettivo di renderli immuni da hiv, lo scienziato ha modificato il gene Ccr5 (considerato dagli esperti la porta attraverso cui il virus entra nelle cellule) degli embrioni, che sono stati impiantati e si sono sviluppati. Le gemelline Crispr sono nate a ottobre 2018, e da quel momento la comunità scientifica non ha mai smesso di parlare – direttamente o indirettamente – di loro.

Su He è piovuta una pioggia di critiche e di condanne del mondo scientifico e non solo (probabilmente ci saranno anche ripercussioni penali) per aver violato la moratoria internazionale sulle modifiche di embrioni umani, e fin da subito sono si sono sollevate preoccupazioni per lo stato di salute delle bambine. Perchè sappiamo ancora troppo poco del nostro genoma per pensare di poterlo modificare a piacimento.

Vita breve per i bambini crispr?

Le prime ricerche non si sono fatte attendere e a giugno 2019 Nature Medicine ha pubblicato una ricerca (ne avevamo parlato qui) che affermava che le persone che per natura possiedono la mutazione nota come delta-32 in entrambe le copie del gene Ccr5 (circa l’1% della popolazione europea) hanno maggiori probabilità di morire entro i 76 anni rispetto al resto della popolazione.
Lo studio – realizzato da Rasmus Neilsen e Xinzhu  Wei utilizzando il database di materiale genetico contenuto nella Uk Biobank – andava a sostegno di chi ritiene che il ruolo e limportanza di Ccr5 per la salute umana non siano ancora del tutto chiari e che inattivare di proposito il gene possa avere ripercussioni al momento imprevedibili. Le conclusioni, inoltre, suggerivano che potesse esserci un rischio reale per i bambini geneticamente modificati che portano una mutazione che inattiva Ccr5.

Contrordine

Anche questa analisi non poteva certo passare inosservata e più di qualcuno ha voluto controllare se i risultati di questo primo studio fossero replicabili, cioè se si potesse giungere alle stesse conclusioni considerando un campione più ampio di popolazione o attingendo da un diverso database di genomi. E ben presto – racconta lo stesso Nature – sono cominciate a saltar fuori le magagne: altri ricercatori non ottenevano gli stessi riscontri.

Il primo a far notare che qualcosa non andava è stato Sean Harrison, un epidemiologo dell’università di Bristol (Uk), che ha esposto le sue considerazioni in un post sul suo blog (che ora però è incompleto per via di problemi di permessi nell’utilizzo dei dati di cui l’autore non si era reso conto). E ora ci sono altri due studi in corso di pubblicazione che hanno utilizzato database diversi senza trovare riscontro dei dati di Nielsen e Wei.

A identificare in modo chiaro quale fosse il problema della non replicabilità del dato ci ha pensato il team di David Reich, genetista alla Harvard Medical School di Boston. Lavorando con Neilsen e Wei, i ricercatori hanno capito che c’era un errore di metodo che aveva portato a sottostimare il numero di persone con due copie della mutazione delta-32 nel campione di popolazione considerato. Per questo sembrava che i portatori di una doppia mutazione avessero una probabilità maggiore di morire prima dei 76 anni e che il campione fosse ridotto rispetto alle stime attese.

È lo stesso Nielsen a fare il mea culpa: “C’erano controlli che avremmo potuto fare e avremmo dovuto fare, e non li abbiamo fatti. Abbiamo perso il fatto che si è verificato un errore di genotipizzazione”.

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