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martedì, Ott 08

Le difficoltà dell’accordo di Malta sui migranti


Oggi il Lussemburgo ospita il vertice dei ministri dell’Interno. Ma i paesi aderenti sono pochi, non ci sono sistemi di sanzioni e la rotazione dei porti è fragile: con ogni probabilità la palla passerà al Consiglio europeo di dicembre

Luciana Lamorgese a Malta il 23 settembre (Foto: Jonathan Borg/Xinhua/Ipa)

È in programma per oggi in Lussemburgo il vertice dei ministri dell’Interno dell’Unione Europea. La titolare del Viminale, Luciana Lamorgese, vorrebbe concludere o almeno rafforzare l’accordo di Malta sottoscritto alla Valletta lo scorso 23 settembre fra i governi di Francia, Germania, Italia e Malta, con la Finlandia presidente di turno dell’Ue. Le prospettive non sembrano tuttavia delle migliori, per la tenuta e l’entrata in vigore del meccanismo di redistribuzione automatica dei migranti che dovrebbe alleggerire il peso dagli hotspot e dai centri di accoglienza di Roma e La Valletta.

Il patto prevede che i migranti che arrivano nei due paesi, soccorsi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, vengano redistribuiti fra le nazioni aderenti nel giro di quattro settimane dallo sbarco. Un punto importante, perché consentirebbe di superare il controverso principio del primo approdo previsto dal regolamento di Dublino III che ha tenuto ancorate – per non dire: prigioniere – in in attesa dell’esito della lunga procedura per la richiesta d’asilo, migliaia di persone che avrebbero potuto o voluto spostarsi altrove trovando parenti, conoscenti o migliore accoglienza. Non solo: l’accordo prevede anche un meccanismo di rotazione dei porti di sbarco e un sistema di sanzioni da progettare per chi, nel corso del tempo, non decidesse di aderire allo schema. Il piano, infine, si applica ai migranti soccorsi in mare dalle ong e dai mezzi militari, compresi quelli che spesso vengono definiti economici (cioè non in fuga da paesi in guerra o a rischio persecuzione), ma non a quelli che arrivano da soli, con i barchini, o tramite altre rotte. Per esempio dal Marocco alla Spagna e nell’Egeo.

Luigi Di Maio aveva commentato con una certa freddezza: “Attenti ai facili entusiasmi”. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, invece, aveva parlato un paio di settimane fa di “passo storico”. Se nella forma può essere considerato tale, nella sostanza – e mentre continuano i naufragi – pesano sul documento tre ordini di problemi, che verranno inevitabilmente al pettine nel summit di oggi. Il primo riguarda la possibile rotazione dei porti sicuri di approdo: difficile che avvenga, e non solo perché contraddirebbe alcune norme internazionali (lo sbarco dev’essere il più veloce possibile dopo il soccorso in mare) ma perché, pure in questo caso, si baserebbe su un meccanismo volontario. Il passaggio è stato inserito su esplicita richiesta dell’Italia ma è complesso che la Spagna o la Grecia si offrano, specialmente dal momento che l’accordo riguarda solo i migranti salvati nel Mediterraneo centrale, cioè su una rotta che non li coinvolgerebbe.

Il secondo punto è quello più spinoso: le difficoltà che aderisca un numero sufficiente di paesi per rendere sensata la redistribuzione. Lamorgese e i colleghi francese e tedesco speravano in una decina di via libera già da oggi, probabilmente ne arriveranno solo tre: quelli di Portogallo, Lussemburgo e Irlanda. Se era scontato il rifiuto del blocco di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia) si sarebbero aggiunti anche i dubbi, guidati in gran parte da ragioni di politica interna, di Austria e Belgio (impelagati alla ricerca di nuovi esecutivi nelle loro piene funzioni), i Paesi Bassi che tuttavia alla fine dovrebbero aderire, la stessa Finlandia che in base al proprio ordinamento può accettare simili accordi solo con altri 19 paesi aderenti. E ovviamente l’altro fronte del Mare Nostrum: Grecia, Spagna e Cipro che pretendono un sistema simile anche per le loro rotte migratorie.

Secondo alcune indiscrezioni, invece, altri paesi starebbero sfruttando la carta dell’adesione per ottenere vantaggi o elementi in gran parte slegati: è il caso di Romania e Bulgaria, che potrebbero spingere per ottenere in cambio l’ingresso nello spazio Schengen. Tutto tace da territori esterni all’Ue ma spesso collaborativi come Svizzera e Norvegia. E delle eventuali sanzioni per chi non aderisce, ovviamente, non se ne è neanche iniziato a discutere.

Il terzo ordine di problemi è di tipo politicostrategico: c’è il rischio che l’eventuale entrata in funzione di un meccanismo come quello disegnato a Malta, magari nel 2020, possa paradossalmente posticipare a data da destinarsi l’imprescindibile riforma del trattato di Dublino III, sottoscritto nell’attuale versione dal governo Letta e nella precedente da quello Berlusconi, sebbene le origini della convenzione di Dublino risalgano addirittura al 1990, cioè all’ultimo governo Andreotti. Un altro mondo.

La neopresidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha promesso di voler “riformare Dublino”, superando per esempio i blocchi legati al primo approdo. L’accordo di Malta può essere allo stesso tempo un acceleratore del processo o un intricato antipasto dei più complicati ostacoli che una rifondazione delle politiche di accoglienza europee comporterebbe al Consiglio europeo. Al quale, è legittimo pensare, finirà anche questa palla. Ma a dicembre, non prima di aver sciolto l’altra bomba a orologeria che pende sul Vecchio Continente: la Brexit.

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