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sabato, Ago 31

Le leggende metropolitane del Giappone


In Giappone le leggende metropolitane sono molto numerose: ecco cosa possono raccontarci della cultura del Sol levante, e non solo

Secondo le leggende metropolitane Hello Kitty è stata creata in seguito a un patto col diavolo per salvare una bambina, oppure era la mascotte di una simpatica centrale nucleare   (YOSHIKAZU TSUNO/AFP/Getty Images)

Molti di noi conoscono il Giappone principalmente grazie alla globalizzazione. Intorno a noi riconosciamo i nomi di alcune delle più famose marche dell’elettronica di consumo e di autoveicoli, siamo cresciuti con gli anime del Sol levante e con i suoi videogiochi. Sappiamo anche che è il paese dei centenari, del debito pubblico alle stelle, e l’unico (a oggi) a essere stato attaccato con armi nucleari. È anche un paese molto sismico, e che a differenza di altri è campione di prevenzione in questo senso, a patto di dimenticarci della quarantina di reattori nucleari concentrati in un’area poco più grandi della Germania.

C’è un altro aspetto unico che riguarda il Giappone: le sue leggende metropolitane. Potrebbe sembrare secondario, ma in realtà anche il folklore giapponese è stato esportato in tutto il mondo. Secondo il foklorista Kunio Yanagita il Giappone possiede “più leggende di qualsiasi paese occidentale”, e questa diversità a quanto pare vale anche per leggende contemporanee.

Strani passeggeri

Non è possibile selezionare un piccolo campione rappresentativo delle leggende metropolitane giapponesi: sono troppe e troppo complesse. Ma si possono isolare alcuni temi principali, o almeno i più famosi. Il paranormale è eccezionalmente rappresentato nelle leggende metropolitane di questo paese. Rispetto all’occidente spiriti, mostri e fantasmi sono un ingrediente più frequente.

Un esempio recente riguarda lo tsunami del 2011. Dopo la tragedia sulle coste orientali dell’isola di Honshū ha cominciato a circolare una versione molto particolare dell’autostoppista fantasma. Una ragazza sale su un taxi e chiede di essere accompagnata in una delle zone sfollate. Il tassista risponde chiedendo se è proprio sicura della destinazione, ma la passeggera è scomparsa. In alcune versioni, prima di scomparire chiede “Sono morta?”. Anche se l’autostoppista fantasma è conosciuto ovunque, questa versione ha caratteristiche indubbiamente legate alla cultura del Giappone. Per esempio, anche alcuni tassisti avrebbero raccontato in prima persona la storia, specificando però di non avere avuto paura, che i fantasmi in quelle zone ci sono, e che li riprenderebbero volentieri a bordo.

Come racconta Giuseppe Stilo del Ceravolc, la leggenda è stata studiata da Yuka Kudo per la sua tesi di laurea in sociologia: i racconti sulle spettrali vittime sono figli del disastro e del lutto collettivo. Un altro fattore da tenere in considerazione, secondo le scettico Ben Radford, è che in Giappone esiste una tradizione di scherzi, tipo candid camera, che mettono in scena l’apparizione di un fantasma durante la corsa di un taxi. Anche questo è folklore contemporaneo, e potrebbe essere legato alle leggende sui fantasmi dello tsunami.

“Sono bella?”

Il folklorista Jan Harold Brunvand ha osservato che un altro elemento ricorrente nelle leggende contemporanee giapponesi è la mutilazione. L’esempio più famoso in questo senso è probabilmente Kuchi-sake-onna, letteralmente donna dalla bocca spaccata. Una giovane donna si aggira per la città con la bocca coperta da mascherina e chiede a un passante, spesso un bambino: “Sono bella?”. L’esito dell’incontro varia a seconda della risposta. Se negativa Kuchi-sake-onna ucciderà subito il malcapitato. Se affermativa, abbasserà la mascherina rivelando che la bocca è stata squarciata da un orecchio all’altro e chiederà “e adesso sono bella?”. L’algoritmo prosegue: un “no” porterà a morte certa, mentre con un sì la vittima avrà salva la vita, ma sarà mutilata esattamente come la donna. Ma chi è Kuchi-sake-onna, e chi l’ha ridotta così? La sua storia varia, ma spesso si dice sia stato un intervento di chirurgia plastica finito male ad averla fatta impazzire.

La prima segnalazione della leggenda è del dicembre 1978. Si diffonderà oralmente e diventerà virale a partire da giugno dell’anno successivo grazie ai media. Kuchi-sake-onna dominò l’estate del 1979, poi l’interesse per le voci scemò. Anche se fenomeno non era più argomento quotidiano, era nata una star. La donna mutilata diventò un’icona, conosciuta in tutto il Giappone e anche oltre. Alcuni studiosi pensano che questa leggenda sia da collegare a simili storie di donne demoniache di cui è ricca la tradizione giapponese.

Altri invece, come Michael Foster, sottolineano la sua contemporaneità. La ricerca della bellezza conforme e la chirurgia plastica (non a caso della leggenda parlarono molto le riviste femminili) sono indubbiamente moderni. E la mascherina, anche se non sempre presente, ci parla delle nuove paure (per esempio l’inquinamento) figlie del miracolo economico giapponese. Secondo Foster la donna è uno dei nuovi yōkai. Questo nome nome indica solitamente i mostri (in senso lato) della tradizione giapponese e riscoperti dal XX secolo, ma il paese è anche in grado di crearne di nuovi.

Il fenomeno Momo

Nell’estate dell’anno scorso eravamo da poco sopravvissuti alla Blue Whale che scoppiò la Momo Challenge. Un gioco malato, reso possibile dai perfidi social media, prendeva di nuovo di mira i bambini. Su WhatsApp si aggirava Momo, inquietante creatura dagli occhi sporgenti le cui foto attiravano decisamente l’attenzione. Contattarla voleva dire sfidarla: Momo avrebbe inviato materiale sempre più raccapricciante cercando di convincere il giocatore a farsi del male e a procurargli altre vittime. Le redazioni estive, a caccia di qualunque ombra di notizia, abboccarono subito e il panico morale puntualmente si presentò: la leggenda metropolitana fece il giro del mondo.

Non è detto però che sia nata in Giappone, ma le foto terrificanti di Momo lo sono senz’altro. L’aspetto della creatura potrebbe addirittura ricordare Kuchi-sake-onna e in effetti si trattava della scultura di uno yōkai, per la precisione un ubume, fantasma di una donna morta di parto che spesso è rappresentato con caratteristiche da uccello. Anche la scultura aveva zampe e ali da uccello, ma come ha notato Sofia Lincos su Query, la foto del meme è tagliata in modo da non darlo a vedere. La scultura è stata creata da Keisuke Aizawa della Link Factory, un ditta di effetti speciali, ed era stata esposta nel 2016 alla Vanilla Gallery, occasione in cui fu scattata la foto, caricata su instagram e poi utilizzata a due anni di distanza per la bufala.

Oggi la statua non esiste più, i materiali si sono deteriorati e Link Factory l’ha smaltita. Non sarà comuque sufficiente a uccidere Momo, diventata protagonista di film e videogiochi, e anche la Momo Challenge è destinata a ripresentarsi e a mutare: l’ultimo avvistamento è degli inizi dell’anno. In queste ore invece comincia a farsi largo la Samara Challenge

Conto alla rovescia

Spesso i nostri prodotti non durano quanto vorremmo, ma il più delle volte le cause sono più complesse e profonde di una presunta obsolescenza programmata. Eppure l’idea che i nostri dispositivi siano progettati per fare seppuku in un preciso momento, appena fuori dalla garanzia, è radicata. Anche in Giappone, patria dell’elettronica, esiste una leggenda di questo tipo: il Sony timer. Secondo il Telegraph dagli anni ’80 i giapponesi chiacchierano di un dispositivo che provvederebbe a mettere fuori uso i prodotti della multinazionale dopo un certo periodo, o alla ricezione di un segnale prestabilito, costringendo i geek a mettere mano al portafoglio.

Negli anni incidenti di produzione, come il richiamo delle batterie sui laptop Dell del 2006, hanno ravvivato la leggenda e l’hanno spinta fuori dai confini nazionali. Non è chiaro se i consumatori che ne parlano ci credano seriamente o se è solo una battuta. Quel che è certo è che i dirigenti della Sony prendono il tutto abbastanza seriamente da essersi preoccupati di smentirlo.

Scontro di culture

Molte sono anche le leggende metropolitane sul Giappone. Come nel caso di quelle sulla Cina possono essere indicative di quello che gli Occidentali credono di sapere, o temono, del paese. Per esempio si dice che in Giappone uno o più negozi abbiano esposto una decorazione natalizia un po’ macabra: un Babbo natale crocifisso. Non si sarebbe trattato di una provocazione gratuita alla religione cristiana: il punto è che i giapponesi avrebbero fatto un po’ di confusione nell’assimilare due simboli, molto diversi, del Natale.

La storia circola senza dettagli, come il nome del negozio, e infatti è una leggenda metropolitana. Ciò che la rende credibile è che il Natale giapponese è in effetti un po’ strano, a occhi occidentali. In un paese con pochi cristiani, la festa dal secondo dopoguerra è diventata popolare principalmente per ragioni di economiche, non religiose. Forzando un po’ la similitudine, è una specie di Black friday col valore aggiunto di qualche tradizione (tra cui gli addobbi e una torta di natale alle fragole) ma che non è nemmeno festa nazionale. Detto questo, un Babbo natale crocifisso sarebbe decisamente troppo, e infatti la voce si diffonde a partire dagli anni ’90 in America, quanto il colosso economico Giapponese cominciava a fare paura. Del resto era già in circolazione un’altra leggenda dallo retrogusto razzista, secondo cui una città giapponese aveva cambiato il suo nome in Usa per poter marchiare i prodotti Made in Usa. La città di Usa esiste davvero, ma si chiama così da molto prima della nascita degli Stati uniti, e una furbata di questo tipo non avrebbe mai avuto speranze. È vero però, ricorda Snopes, che i consumatori americani erano sospettosi del Sol Levante, al punto che nel 1969 Sony cercava di rendere la scritta Made in Japan poco visibile sui suoi prodotti.

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