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sabato, Lug 06

Le verità (scomode) che forse non sapete sull’Apollo 11


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(foto: Nasa)

Ci siamo quasi. Il 20 luglio saranno trascorsi 50 anni esatti dal primo allunaggio, quel celebre piccolo passo per un uomo sul suolo extraterrestre reso eterno da colui che lo fece, Neil Armstrong, come “un balzo gigantesco dell’Umanità”. E a ragione.

In molti, in ogni angolo della Terra, celebreranno l’anniversario della missione Apollo 11 della Nasa. Legittimo: il 20 luglio 1969 è considerata una delle date più significative della nostra storia, la dimostrazione che l’infinito cosmico da lì in poi sarebbe stato di un’orma più breve.

Via dalla glorificazione legittima – cui certo Wired contribuirà anche seguendo la missione Beyond, che riporterà Luca Parmitano sulla Stazione spaziale internazionale la mattina del 20 luglio – sembra opportuno rivedere l’evento senza idealizzarlo. E non certo per chissà quale vezzo iconoclasta: il più grande viaggio mai intrapreso dalla nostra specie fu l’apice delle nostre virtù scientifiche, tecnologiche ed esplorative, ma per diversi motivi rivelò (e fu il frutto) anche dei nostri vizi.

Per dare la misura corretta di quel balzo sembra dunque necessario soppesare anche la piccolezza di chi lo spiccò: l’Uomo.

1. Un’eredità esplosiva

Il Saturn V si stacca dalla rampa di lancio diretto alla Luna (foto: Ralph Morse/Getty Images)

Il luglio del 1969 è il mese cruciale della space race inaugurata più di 10 anni prima fra Usa e Unione sovietica. Dall’ultima tappa, quella coincidente con il suolo lunare, i russi si sono però detti fuori (sebbene, proprio negli stessi giorni dell’Apollo 11, spediranno il mezzo automatico, Luna 15, attorno al nostro satellite naturale). Gli americani, insomma, corrono contro se stessi, eventualità talvolta anche più complessa. Ma nulla può più spaventare la Nasa: il padre del programma spaziale, il geniale barone Wernher von Braun – l’ex ufficiale nazista cui si devono le V2, consegnatosi con 500 dei suoi tecnici migliori all’esercito degli Stati Uniti alla vigilia della sconfitta tedesca nella seconda guerra mondiale –, sta lavorando a un grande razzo da prima che il programma Apollo venisse approvato.

Il risultato di 11 anni di migliorie progressive si chiama Saturn V, il lanciatore più potente mai realizzato: progettato dal Marshall Space Flight Center sotto la direzione di von Braun e Arthur Rudolph e realizzato da appaltatori di prim’ordine, rispondenti ai nomi di Boeing, North American Aviation, Douglas Aircraft e Ibm, è un gioiello di tecnologia largo più di 10 metri per 110,6 di altezza (18 in più della Statua della libertà), con una capacità di carico di 140 tonnellate in orbita terrestre e 48,6 in orbita lunare. Con i suoi 3 stadi, ha una massa complessiva al decollo di 2970 tonnellate, sollevata da 5 motori Rocketdyne F-1, quelli del primo stadio, capaci di sviluppare una spinta di 35100 kN al livello del mare.

Detta in parole più semplici, dei suoi 13 lanci effettuati fra il 9 novembre 1967 e il 14 maggio 1973, 13 furono i successi (la tragedia dell’Apollo 1, in cui tutto l’equipaggio morì in un incendio nella capsula di comando, si verificò durante un test a terra; e anche l’Apollo 6 è considerato un test).

Abbiamo fatto il massimo”, commenterà von Braun poco prima del lancio di Armstrong, Aldrin e Collins,“ma a parte tutto, ho bisogno di fortuna. Tutti ne abbiamo bisogno, ma io in modo particolare”.

Impossibile capire la frase del progettista. Come impossibile escludere che si riferisse ai predecessori del suo ipertrofico capolavoro volante, costato la bellezza di 6.147 miliardi di dollari (al 1973): von Braun ebbe il via libera alla realizzazione dei suoi progetti all’indomani del primo beep emesso dallo Sputnik e dopo l’iniziale fallimento della risposta americana, quando il razzo Vanguard sviluppato dalla Marina militare si schiantò subito dopo il decollo. Il genio tedesco rispose con il suo Redstone, il nonno del Saturn V, un razzo usato in ambito militare dal 31 gennaio 1958, quando aveva portato in orbita il primo satellite americano, l’Explorer 1, al 30 novembre del ‘65, per un totale di 56 lanci effettuati. Di cui 28 falliti.

Nel frattempo, il team di von Braun aveva creato la variante Jupiter-C, un lanciatore a tre stadi per voli suborbitali: tre lanci, solo l’ultimo senza problemi. Il Juno 1, la stessa modifica del Redstone capace di portare l’Explorer 1 fra le stelle, fallì tre dei successivi cinque voli. Stesso destino per il debutto del Mercury-Redstone, progettato per portare le prime capsule con equipaggio umano in traiettoria suborbitale: il 21 novembre 1960 il razzo si staccò da terra senza riuscire a raggiungere i dieci centimetri di quota, prima di rivelare un problema al motore ignorato nei 60 voli precedenti.

Quando Alan Shepard, il 5 maggio 1961, divenne il primo americano a uscire dall’atmosfera terrestre, il lanciatore che lo accompagnò aveva una media di 6 esplosioni su 10 lanci. Dura escludere che anche di fronte al colossale nipote, il Saturn V, e ai successi ottenuti nel frattempo, von Braun non abbia pensato alle statistiche almeno una volta.

2. Primo essere umano… per caso

Neil Armstrong al Nasa Training Center (foto: Ralph Morse/The Life Picture Collection/Getty Images)

Come e perché toccò a Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins? “Assolutamente per caso. Come in un gioco di dadi. Chiunque crede che tale scelta sia dipesa da qualche merito particolare o da un calcolo politico o da una decisione del presidente degli Stati Uniti, si sbaglia. Essa è dipesa, né più né meno, dal modo in cui si sono susseguiti i voli Apollo e dal fatto che a Neil Armstrong sia capitato di comandare l’Apollo 11, cioè un volo che non prevedeva lo sbarco sulla Luna”.

A scriverlo già nel 1970 è Oriana Fallaci in Quel giorno sulla Luna, reportage fatto libro sui protagonisti del programma spaziale statunitense. La giornalista fiorentina fu convinta da due fatti: il primo sono le modifiche in corsa del programma Apollo.

I piani di lancio originali comportavano la sperimentazione del Lem (Lunar Excursion Module) in orbita terrestre con l’Apollo 8, poi in orbita lunare (Apollo 9) e quindi lo sbarco sul suolo selenico, con l’Apollo 10 comandato da Tom Stafford. A Natale del 1968, però, i ritardi nell’ultimazione della capsula Lem decretarono fosse l’equipaggio dell’Apollo 11 il primo ad allunare. Ciò dimostra, continua Fallaci, che “il merito di Armstrong consista solo nell’essere entrato nella rosa finale dei tre voli prossimi alla Luna: Apollo 10, 11 e 12. Ha vinto lui come poteva vincere Stafford, o poteva vincere [Peter] Conrad”.

Per quanto non sia da escludere l’antipatia nei confronti del first man che la giornalista dichiara apertamente fra le pagine, a dar man forte alle sue conclusioni è un secondo fatto, meglio, sono le parole di Donald Slayton, detto Deke, uno dei sette astronauti originari del programma spaziale americano (i leggendari Mercury Seven) e colui al quale spettava decidere chi volasse e quando: “Nessuno è così sciocco da credere che tutti i 52 astronauti siano allo stesso livello professionale – dichiarò Slayton interpellato a riguardo –, ma coloro che ho scelto per i voli Apollo sono in sostanza uguali: una banda di ragazzi identicamente allenati e identicamente competenti e identicamente in grado di sbarcare sulla Luna e tornare indietro”.

Anche in questo caso, però, è dura credere che le parole di Slayton non fossero almeno in parte dettate dalle circostanze. E comunque gli andò bene: già protagonista di un superbo salvataggio con la sua Gemini 8, che il 16 marzo 1966 era riuscito a riportare a terra dopo un’imprevista fase di rotazione in volo da un giro al secondo – al limite della perdita dei sensi – proprio sulla Luna Armstrong dovette affrontare l’overlflow dell’Apollo Guidance Computer, un sovraccarico dovuto all’erronea attivazione del radar di rendez-vous, e passare al controllo semi-automatico per correggere la traiettoria di allunaggio, visto che la zona scelta si era rivelata troppo sassosa.

Qui base della Tranquillità, l’Aquila è atterrata”, disse il comandante dell’Apollo 11 una volta posate le zampe del Lem sulla superficie lunare. A Houston erano passati 17 minuti e 40 secondi dalle tre del pomeriggio (in Italia erano le 22:17); 30 secondi dopo il modulo Eagle non avrebbe avuto sufficiente propellente per ripartire. Il polso di Armstrong, mai oltre i 70, 90 battiti al minuto, aveva toccato i 156. Solo per un attimo.

3. Il lato oscuro degli eroi

L’equipaggio dell’Apollo 11, Neil Armstrong, Michael Collins ed Edwin “Buzz” Aldrin, in posa al Manned Spacecraft Center (foto: Time Life Pictures/Nasa/Getty Images)

Simbolo di pace anche sancita dal dischetto di silicio con i messaggi di 73 leader politici internazionali lasciato sulla Luna da Armstrong e Aldrin – se ne trova un resoconto dettagliato nel meraviglioso We Came in Peace for All Mankind – il programma Apollo fu incontestabilmente frutto della rivalità ideologica, politica e militare di Usa e Unione sovietica.

Non fu un caso che la maggior parte dei primi cosmonauti sovietici o degli astronauti americani, anche i civili come Armstrong, avesse un passato o un presente nell’esercito. Profilo notato da molti, in un’epoca in cui le guerre in Corea e Vietnam erano ferite fresche o ancora spalancate.

Iscrittosi a ingegneria aeronautica, Armstrong divenne pilota della Marina non ancora terminati gli studi e nel 1950 finì in Corea, dove accumulò 78 combattimenti in volo. Compreso quello in cui, colpito, riuscì chissà come a tornare sulla sua portaerei. “È il miglior pilota di X-15 che sia mai esistito” disse di lui il famoso collaudatore Joseph Walker.

Aldrin, colonello dell’aviazione addestrato a West Point, fu un aperto sostenitore dell’intervento americano in Vietnam e, anche lui combattente in Corea, fu protagonista di 66 missioni a bordo del suo F-86 Sabre, un aviogetto da caccia.

Quando in un’intervista gli venne chiesto se non pensasse alle vittime dei suoi bombardamenti, rispose “Certo. Erano miei nemici”. “Anche i bambini, i vecchi e le donne?” lo incalzarono. “Certo”, confermò.

Quando fra cento anni o duecento o mille o duemila celebreremo lo sbarco sulla Luna – chiosò Fallaci amplificando quello che all’esterno del Kennedy Space Center molti manifestanti urlavano mentre il Saturn V si staccava dalla rampa di lancio – faremo bene a ricordarci che i primi due uomini sopra la Luna furono due uomini che avevano ucciso un mucchio di uomini in guerra”.

4. Il topo e la Cosa da un altro mondo

24 luglio 1969: in quarantena, Armstrong, Aldrin e Collins incontrano il presidente Richard Nixon a bordo della Uss Hornet (foto: Richard Nixon Foundation/Getty Images)

Ti prego topo, non ammalarti quando ti porto i sassi, non diventare un dinosauro”. Pare che rompendo il suo tipico rigore fossero queste le parole abitualmente dedicate da Armstrong a uno dei topolini bianchi della cosiddetta Arca di Noè.

Ricavata attorno alle camere a vuoto adibite alla conservazione e allo studio dei 25 chilogrammi di rocce lunari riportate dall’Apollo 11, l’Arca raccoglieva le cavie su cui studiare se eventuali germi selenici fossero dannosi alla vita terrestre: topi, ostriche, scarafaggi, quaglie, gamberi, pesci, mosche, semi di granturco, grano e funghi sarebbero stati immersi in soluzioni acquose venute a contatto con le rocce riportate da Armstrong ed equipaggio per studiarne reazioni o eventuali trasformazioni.  Insieme con la possibilità di inquinare l’ambiente lunare – la cosiddetta forward contaminationla back contamination costituì un problema serio una volta concretizzatasi l’ipotesi di andare in un ambiente extraterrestre. Per prevenire qualsiasi contagio che teoricamente avrebbe potuto – e potrebbe – rivelarsi catastrofico per l’intero ecosistema terrestre, la Nasa costruì il Lunar Receiving Laboratory, o Lrl, un edificio di quarantena dove Armstrong, Aldrin e Collins avrebbero trascorso in isolamento i 21 giorni successivi al loro rientro.

A pochi passi dagli uffici degli astronauti alla Nasa, l’Lrl fu pensato come un grande complesso costituito da laboratori, camere a vuoto e quartieri abitabili isolati ermeticamente, dove oltre all’equipaggio dell’Apollo 11, 18 scienziati sarebbero rimasti chiusi per settimane nella speranza di garantire la sicurezza del pianeta. Dalle mura spessissime, con porte a tenuta stagna e una pressione più bassa dell’esterno in modo da far entrare l’aria impedendole di uscire, l’Lrl era costantemente monitorato da registrazioni audio e video, per impedire che qualcuno violasse i rigorosi protocolli di sicurezza.

Non che gli scettici mancassero e non solo perché l’ammaraggio e il trasporto degli astronauti fino all’Lrl erano tutto fuorché privi di falle che avrebbero potuto causare una contaminazione dalla cosiddetta Cosa; “la possibilità [di un contagio lunare] è remotissima – dichiarò ai tempi Persa Bell, geologo, biologo, matematico, fisico e manager della struttura di quarantena – “tutto ciò che mi aspetto di trovare è una quantità di germi terrestri portati dagli astronauti e dall’Lm […] Il primo viaggio mi eccita e basta, giacché non presenta rischi per l’umanità. Come il secondo e il terzo. I rischi incominceranno dopo, semmai, quando frugheremo a fondo”. Non proprio incoraggiante alla luce delle prossime intenzioni delle agenzie spaziali.

5. Il primo complottista. Chi era costui?

25 settembre 1965: Stanley Kubrik e Arthur Clarke incontrano George Mueller e Donald Slayton della Nasa. Secondo alcuni una delle prove del complotto lunare (foto: The Stanley Kubrick Archives)

La data del 20 luglio 1969 è anche nota per essere quella della più grande messa in scena della storia. Certo, sempre ignoriate le tonnellate di prove e testimonianze a garanzia dell’allunaggio.

I dubbi cominciarono a diffondersi cinque anni dopo, quando William Charles Kaysing pubblicò We Never Went to the Moon, un libro in cui lo sbarco “manned”, cioè con equipaggio, si sosteneva impossibile per i limiti tecnologici dell’epoca. Vale la pena chiedersi chi fosse l’autore, scomparso nel 2005, del testo che originò ogni luna-complottismo successivo.

Origini tedesche, laurea breve in Letteratura inglese, Kaysing ha sempre dichiarato di aver scritto il suo testo sacro grazie “all’esperienza lavorativa maturata alla Rocketdyne“, la società californiana che costruì i motori del Saturn V. Lungi dall’essere un ingegnere, all’azienda Kaysing collaborava alla stesura dei manuali tecnici, in sostanza trascrivendo correttamente le indicazioni dei progettisti, “sebbene la mia conoscenza di razzi e scrittura tecnica – ammetterà lui stesso – fosse pari a zero. Dalla Rocketdyne, per di più, Kaysing uscì nel 1963, sei anni prima del lancio dell’Apollo 11. Sei anni in cui la tecnologia e la scienza, soprattutto in ambito spaziale, fecero balzi come quelli dell’umanità evocati da Armstrong una sera di qualche estate dopo.

Non solo: il parere del letterato Kaysing su questioni tecniche per sua stessa ammissione a lui ignote fu peraltro basato, citazione testuale, su “una premonizione, un’intuizione; informazione da un poco compreso e misterioso canale di comunicazione… un messaggio metafisico”.

È probabile fosse lo stesso tipo di messaggio recapitatogli per sostenere un’altra celebre tesi complottistica, sempre riportata nel libro: per mettere in scena l’allunaggio, la Nasa assoldò Stanley Kubrick, minacciandolo, in caso di rifiuto, di ritorsioni contro il fratello, Raul, sospettato di legami con il partito comunista. Peccato che dell’esistenza di Raul, fratello del celebre regista di 2001: Odissea nello spazio, non sia mai esistiva prova alcuna e in nessuna anagrafe del pianeta.

Ciò premesso, la copertina del libro, nella sua edizione italiana, rimane bellissima. Un motivo in più per festeggiare il prossimo 20 luglio.

Il lunacomplottismo nacque da qui (foto: Emilio Cozzi/Wired Italia)

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