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giovedì, Feb 13

“L’Erasmus da Nord a Sud” non è del tutto una sciocchezza: parliamone



Da Wired :

La proposta delle sardine ha suscitato l’ilarità di tutti, ma la mobilità culturale tra regioni diverse è un problema di cui si parla anche all’estero. In Spagna, peraltro, qualcosa di simile a un Erasmus nazionale esiste già

Mattia Santori, uno dei fondatori delle sardine

La prime proposte delle sardine al governo italiano non hanno – diciamo così – ricevuto grandi ovazioni. Tra i vari suggerimenti depositati dal movimento antifascista al ministero del Meridione, Peppe Provenzano, per aiutare le aree più svantaggiate del paese a riconnettersi, una in particolare sta facendo discutere sui social, tra ilarità e sconcerto: “Perché non ripristinare fin dall’università una sorta di Erasmus tra regioni del sud e del nord?”, si è domandato il leader Mattia Santori. “Perché un napoletano non può farsi sei mesi al Politecnico di Torino e un torinese sei mesi a Napoli o a Palermo per studiare archeologia, arte, cultura o diritto?”.

La trovata è stata presa di mira da molti utenti di Twitter, professionisti dell’informazione e commentatori. “Vogliono fare come Benvenuti al Sud”, scrive un giornalista. E ancora: “Ho fatto tre anni di Erasmus a Cuneo”, aggiunge un altro. “Perché d’altronde fare la triennale al sud e la magistrale al nord (per esempio) ad oggi è impossibile, per via della difficoltà ad ottenere il visto del paese rispettivo”. C’è anche chi parla di razzismo, perché l’idea rischierebbe di trasformare il Mezzogiorno in una sorta di safari per gli studenti settentrionali, e viceversa.

A suscitare giustificabili perplessità c’è forse il fatto che i giornali e i social abbiano sintetizzato la proposta delle sardine chiamandola “Erasmus tra Nord e Sud”, in quanto il programma di scambio intra-europeo nasce – oltre trent’anni fa – con la missione di intensificare gli scambi tra nazioni diverse che parlano lingue diverse, e non certo tra regioni dello stesso paese.

Per di più, anche se oggi l’Erasmus è associato nella cultura di massa indubbiamente a parentesi di edonismo e spensieratezza che i figli della classe medio-alta si concedono tra gli studi superiori e l’ingresso del mondo del lavoro (si veda, come esempio, il film L’appartamento spagnolo), il principale parametro di selezione delle università dovrebbe essere quello della qualità: e dunque della possibilità di migliorare il proprio curriculum, andando oltre il mero desiderio di scoperta.

In altre parole: chi potrà convincere uno studente di un’università prestigiosa del nord a trasferirsi in un’altra, più malmessa e priva di fondi del sud, rischiando di compromettere il proprio curriculum internazionale?

Fatte queste premesse, però, la conversazione generata da quest’idea sghemba è meno inutile di quanto si creda. Innanzitutto perché – per quanto sembri assurdo – non esiste un vero e proprio progetto di mobilità interno al territorio nazionale. È possibile certo iniziare una laurea triennale in un posto e fare la specializzazione in un altro, ma nel mezzo c’è un oceano di complicazioni. Me lo ricorda ad esempio il filosofo Alessandro Volpi: “Forse per chi ha studiato in altri settori non è così, ma per chi studia filosofia  poter fare alcuni corsi in un’altra sede sarebbe utilissimo, per seguire i propri interessi, visto che, per dire, un corso di Filosofia teoretica seguito a Bologna può essere completamente diverso da uno seguito a Padova, o a Milano. Per cui mi chiedo, se posso andare a studiare a Bergen, a Bucarest, a Parigi o Berlino, perché non posso andare a Napoli o a Trento?”.

Come se non bastasse, la progressiva autonomia universitaria (voluta fortissimamente dal governo Prodi I) e il cosiddetto sistema del”3+2, seppur non impediscano la convalida di alcuni esami fuori dal proprio corso di laurea, hanno reso molto difficile trasferirsi da una facoltà italiana all’altra. Servirebbe che sardine e centrosinistra ragionassero proprio sulle riforme in tal senso del primo storico centrosinistra, risalenti alla seconda metà dei Novanta.

Peraltro, qualcosa di molto simile alla proposta delle sardine esiste già: in Spagna. Nel paese iberico si fa esplicitamente riferimento a un “Erasmus nazionale” per descrivere il programma di mobilità per studenti universitari che prende il nome di Seneca, e consente un periodo di studio in un’altra università spagnola, con pari garanzie di riconoscimento accademico. Sospeso nel 2013, è stato reintrodotto l’anno scorso dal nuovo governo di centrosinistra.

L’idea suggerita da Sartori & co. sembra avere più a che fare dunque con una sorta di servizio civile nazionale, sul modello di quello che era obbligatorio per tutti, o quasi, fino ai primi anni Ottanta come alternativa alla naja. Un intento, quello di avvicinare territori che condividono lo stesso governo pur conoscendosi poco, che è tuttavia degno di discussione, ed è già finito al centro del dibattito europeo al tempo del populismo al potere.

Anche in Inghilterra, ad esempio, si sta parlando di una serie di riforme per far defluire parte dello strapotere culturale, economico e politico delle metropoli (e di Londra in particolare) verso i territori periferici, e colmare così il divario che ha prodotto eventi epocali come la Brexit – che è stata, in primis, una reazione della parte dimenticata dal discorso pubblico del Paese contro le élite metropolitane.

Per concludere, parlare delle questioni culturali legate a un paese che non si conosce quanto dovrebbe, la cui mobilità interna è meno sviluppata di quanto si creda, può essere utile. Non ha senso chiamare tutto questo Erasmus: anche perché si rischia di buttarla in caciara. Ma l’idea di favorire uno scambio di idee e persone (anche) all’interno dei confini nazionali, per ricucire una comunità sempre più lacerata da forza esterne e problemi di lungo corso, non è per nulla un’esclusiva delle ingenue sardine, o della notoriamente malandata sinistra italiana.

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[Fonte Wired.it]