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venerdì, Mag 08

Let It Be, esattamente 50 anni fa, metteva la parola fine alla storia dei Beatles



Da Wired.it :

8 maggio 1970: esce l’ultimo album ufficiale dei Fab Four. La storia di questo disco racconta ancora oggi di una band litigiosa, in piena crisi, che da tempo non ha più voglia di esibirsi in pubblico. Con la sola eccezione di quel concerto sul tetto che scotta

I giorni tra l’aprile e il maggio del 1970, per i fan dei Beatles, furono di quelli che non si dimenticano facilmente. Il 10 aprile Paul McCartney lasciava il gruppo. I Fab Four erano arrivati alla fine. L’8 maggio del 1970, esattamente 50 anni fa, usciva Let It Be, l’ultimo capitolo della loro storia, l’ultimo album ufficiale della loro discografia, ma non l’ultimo lavoro ad essere registrato dai quattro di Liverpool: quello fu Abbey Road, nato dalle sessioni negli omonimi studi dell’estate 1969. Let It Be fu registrato prima, nel gennaio di quell’anno, e doveva essere qualcosa di completamente diverso. La storia di questo disco ci racconta una band litigiosa, tesa, in piena crisi.

La copertina di Let It Be, l’ultimo album dei Beatles a uscire.

Una volta uscito, fu un grande successo, ma non venne accolto bene dalla critica, tanto che ancora oggi non è considerato all’altezza degli altri capolavori. Fosse anche un album minore, è comunque pieno di gemme che si chiamano Across The Universe, The Long And Winding Road, Let It Be.

Un live grandioso in Tunisia prima dell’addio

The Beatles' rooftop concert
Un’immagine del famoso “Rooftop concert” dei Beatles

Già nel 1966 i Beatles avevano abbandonato le performance dal vivo dopo un concerto a Candlestick Park, San Francisco, ma non avevano mai annunciato ufficialmente il ritiro dalle scene. Dunque, l’ipotesi di un loro ritorno on stage continuava ad animare fan e giornalisti. Paul McCartney sentiva la mancanza del palco e dell’adrenalina del live, gli altri tre invece no, specie John Lennon. Nell’estate del 1968, c’era stata un’esibizione per il promo di Hey Jude e Revolution che aveva fatto tornare a Paul la voglia di suonare su un palco. Così lanciò l’idea, che incassò il sì di John e Ringo, di fare un unico, grande concerto, che sarebbe stato ripreso e lanciato come film per la gioia del grande pubblico. A dirigerlo sarebbe stato chiamato Michael Lindsay-Hogg, che aveva registrato il video di Hey Jude. Ma la cosa più ambiziosa era il luogo dove si sarebbe tenuto: un posto all’aperto, mai usato per la musica rock. Si parlava delle piramidi egizie, del deserto del Sahara, del ponte di una nave da crociera che solcava l’oceano. Lindsay-Hogg propose un antico anfiteatro romano in Tunisia. E intanto prese a filmare i Beatles al lavoro per i contenuti extra nel backstage, che avrebbero preceduto le riprese del concerto vero e proprio: per quelli fu allestito un set negli studi della Twickenham Films. Inizio dei lavori: 2 gennaio 1969. A proposito di queste riprese, Peter Jackson, il regista premio Oscar de Il Signore degli Anelli – Il Ritorno del re, in questo momento sta lavorando a una nuova edizione del documentario: grazie alla collaborazione di Paul, Ringo, Yoko Ono e Olivia Harrison, a Jackson sono state messe a disposizione 55 ore di girato mai utilizzato.

Quando George e John vennero alle mani

Ma non tutto, su quel set, stava andando nel migliore dei modi. Paul McCartney era il più motivato, arrivava in orario e discuteva del film. Gli altri arrivavano sempre con una o due ore di ritardo. John Lennon, a volte, non arrivava affatto. Anche se poi, con gli strumenti in mano, la sua professionalità veniva fuori. Ma non c’era più la chimica di una volta. Lindsay-Hogg, che aveva visto la premiata ditta Lennon – McCartney lavorare insieme durante le registrazioni del video di Paperback Writer, anni prima, si era accorto che tutto era diverso. Adesso ognuno arrivava in studio con la sua canzone e diceva agli altri come suonarla, come se fossero dei turnisti. Però, la cosa più eclatante fu il litigio tra George Harrison e Paul McCartney: George, ormai autore al pari livello degli altri due, veniva comunque trattato come una seconda linea. Un feroce scontro con Paul fu ripreso dalle telecamere. Mentre, a camere spente, venne addirittura alle mani con John.

Get Back: ritorno alle origini 

Morale: i Beatles lasciarono gli angusti spazi della Twickenham Films e si rifugiarono nella sede della Apple, a Saville Row, nel cui seminterrato avrebbe dovuto esserci un avveniristico studio di registrazione. George, che dopo quei litigi aveva abbandonato la band, fu convinto a tornare, a patto che non si parlasse più di concerti in anfiteatri, ma solo del nuovo album. Ispirati dalla scelta del gruppo di Bob Dylan che, in pausa dal lavoro con il suo leader, fece uscire un album semplice e folk, Music From Big Pink, i Beatles decisero di prendere una direzione diversa. Il nuovo album sarebbe stato grezzo, diretto, un po’ come il rock che suonavano agli inizi nei club di Amburgo e Liverpool. “Per questo disco, George, non vogliamo nessuna delle tue stronzate da produttore”, dissero al produttore (George) Martin. Insomma, non ci dovevano essere sovraincisioni, montaggi e altri trucchi da sala di registrazione che avevano caratterizzato i Beatles di Sgt. Pepper e i dischi di quel periodo. Doveva essere un ritorno alle origini, a partire dal titolo: Get Back, torna indietro. Certo, il grande studio promesso a Saville Row non c’era, tranne la sala di controllo. E allora tutta l’attrezzatura dovette essere procurata dalla EMI…

Quel concerto sul tetto 

In quella sala d’incisione i Beatles non erano più in quattro. Con loro, che avrebbero registrato tutto in presa diretta, suonava le tastiere Billy Preston. Ma, oltre disco, pendeva sempre quel famoso concerto da organizzare e da filmare. Le idee più esotiche ormai erano state abbandonate. Dove farlo, allora? L’illuminazione venne un giorno mentre stavano mangiando agnello arrosto nella sala riunioni della Apple. Perché non sul tetto del palazzo? Venne fatta un’ispezione: c’era lo spazio per un palco di legno e per le attrezzature per la registrazione e le riprese, e scelto la data: martedì 30 gennaio 1969, di pomeriggio. Era una giornata ventosa, fredda, nuvolosa. Rischiava anche di calare la nebbia. Le strade sotto erano piene di passanti ignari di quello che sarebbe accaduto. E i Beatles, in una stanza in cima alle scale, erano ancora indecisi sul da farsi. Il più riluttante: George. Ringo non capiva il senso della cosa. Finché John disse: “Facciamolo e basta”. Il resto è storia.

E Get Back finì in un cassetto

Non c’era, invece, il disco. Il progetto Get Back sembrava fermo al palo. Nessuno voleva andare a riascoltarsi le 30 ore di registrazione per tirarne fuori una dozzina di brani. Il tecnico Glyn Johns provò, allora, a mettere insieme quel materiale per farne un album e lo sottopose alla band. Bocciato! E addio Get Back. La band si sarebbe dedicata a un altro album, Abbey Road, destinato a uscire nel settembre del ’69.

Benvenuto, Phil Spector (ma anche no)

Comunque, che fare di tutto quel materiale nel cassetto? A spingere per la pubblicazione era Allen Klein, avido manager e uno dei motivi della rottura tra i Beatles. Lui decise di chiamare Phil Spector, famoso produttore, artefice del cosiddettoWall of Sound”, il muro del suono, per il suo modo di stratificarlo (il suono). Spector lavorò a lungo su quel materiale. Inserì dei nuovi effetti vocali e strumentali, costruendo delle canzoni su quelle che in fondo erano delle prove di registrazione. Una volta sentito il risultato, Paul rimase inorridito: tutte le sue parti vocali erano sovrastate da archi dall’effetto melodrammatico, da ottoni  o da cori “celestiali”. L’album non si sarebbe chiamato più Get Back, ma Let It Be, proprio il titolo di una delle canzoni di McCartney che più era stata toccata dalla “cura Spector”. Anche il documentario di Lindsay-Hogg avrà lo stesso titolo. Paul odiava il risultato. Ma era in minoranza. Si chiuse in se stesso e registrò il primo disco da solista, McCartney, in cui suonava tutti gli strumenti. Chiamò anche John e gli disse: “Faccio quello che fate tu e Yoko. Pubblico un album. E anch’io sto lasciando il gruppo”. Let It Be uscì il 10 maggio 1970, vinse un Oscar e un Grammy per la miglior colonna sonora, arrivò al numero 1 nel Regno Unito e in America. Sarebbe rimasto in classifica per oltre un anno. “La gente continua a parlarne come la fine del mondo”, disse John. “Ma è soltanto un gruppo rock che si è sciolto. Davvero nulla di così importante”.

La goccia che fece traboccare il vaso

Se c’era una cosa che Paul McCartney aveva odiato, era il trattamento che era stato riservato a The Long And Winding Road, una delle canzoni più belle del disco. Phil Spector ci aveva aggiunto dei violini e quei cori “celestiali” che a John proprio non andavano giù. Il brano era nato in Scozia, e doveva essere alla Ray Charles: è ispirato alla B842, una strada tortuosa di 25 chilometri lungo la costa orientale del Kyntire che Paul percorreva per raggiungere la sua fattoria. La vena malinconica del pezzo, il testo che recita: “Molte volte sono rimasto solo e molte volte ho pianto. Comunque, non saprai mai le molte vie che ho provato”, sembra proprio parlare della fine della storia dei Beatles. E fu proprio The Long And Winding Road la goccia che fece traboccare il vaso: furibondo per il trattamento che Spector aveva riservato alla sua canzone, Paul decise di considerare chiusa l’esperienza dei Beatles. Si sarebbe preso la rivincita nel 2003, quando avrebbe pubblicato Let It Be… Naked, la “sua” versione del disco, spoglio come lo aveva immaginato.

Across The Universe: prima e dopo

Across The Universe è invece il capolavoro del disco firmato John Lennon. Registrato già nel febbraio del 1968, doveva diventare un singolo, ma gli fu preferita Lady Madonna di McCartney. La canzone, rimaneggiata più volte, nacque dopo una discussione tra John e la moglie Cynthia, in un momento tra sonno e veglia: un flusso di parole venne in mente a John in modo improvviso, tanto che dovette scendere al piano inferiore e fissarlo. ”Jai Guru Dev” (“lunga vita al guru Dev”) era la frase che usavano i discepoli del Maharishi quando si incontravano. Glyn Johns prima tolse i cori e gli effetti sonori, per farla entrare nel mood di Get Back, ma poi Phil Spector aggiunse archi, ottoni e batteria, suonati da un totale di 50 strumentisti.

E alla fine Let It Be

La struttura da gospel, l’organo suonato da Billy Preston. E quel riferimento a “Mother Mary”: in tanti pensano che Let It Be sia una canzone religiosa. Ma in realtà non si parla della Madonna: Maria è proprio la madre di Paul McCartney, Mary Mohin. Una notte, in un periodo piuttosto travagliato per Paul, gli apparve in un sogno rasserenante. Da qui il testo: “Quando mi trovo in momenti difficili, madre Mary viene da me, con parole di saggezza, lascia che sia”. Dopo varie prove, Let It Be fu registrata nella sua versione definitiva il 30 gennaio 1970. Sarebbe stata l’ultima volta, come band, in uno studio di registrazione. E il brano sembra ancora voler dire questo. “E quando la gente con il cuore spezzato che vive nel mondo andrà d’accordo ci sarà una risposta, lascia che sia. Perché anche se sono divise c’è ancora una possibilità che vedano che ci sarà una risposta, lascia che sia”.

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[Fonte Wired.it]