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sabato, Nov 09

Libri come antidoto all’intolleranza – Wired


7 libri per 7 giorni: dal recupero di classici afroameriacani alle nuove voci, fino ad autori che fanno i conti con le proprie cicatrici – reali o generazionali

(foto: JOHN MACDOUGALL/AFP via Getty Images)

Intolleranza, radici scomode e antisemite che ritornano, un emergere sempre più frequente dell’ideologia xenofoba e reazionaria dell’ultradestra italiana l’hanno fatta da padroni nelle recenti notizie. I casi della senatrice Liliana Segre e del calciatore Mario Balottelli, oppure l’attentato alla libreria-caffè La Pecora Elettrica (tra l’altro, recidivo) di Centocelle, o ancora i casi diffusi di omofobia, dimostrano che l’atmosfera in Italia sia alquanto tossica per i diritti. Quali antidoti possiamo trovare nei libri rispetto a questi casi sempre più diffusi – e non solo da noi?

Forse sarebbe il momento di andarsi a rileggere prima di tutto un autore afroamericano recentemente ripescato dall’oblio dall’editore romano Fandango: James Baldwin. Afroamericano in viaggio nei primi anni Cinquanta tra l’America, la Svizzera e la Francia, si batté nei suoi romanzi – e pubblicamente – non solo contro il razzismo e per i diritti della comunità nera negli States, ma anche per i diritti degli omosessuali in generale, predicando un amore assoluto e un pacifismo ad esso legato che non piacquero nemmeno al leader dei Black Panthers. Il suo romanzo più famoso è senz’altro La stanza di Giovanni, semi-autobiografica storia lirica di un amore omosessuale a Parigi, tra il giovane David, bianco di estrazione middle class in lotta con le aspettative paterne e quelle della fidanzata Hella, e l’italiano Giovanni.

Vagabondando per la capitale francese, all’epoca risvegliatasi dal secondo Dopoguerra con un’esplosione di eccentricità nei bistrot e per le strade descritte in modo vividissimo da Baldwin, David scopre e rifiuta a un tempo la propria omosessualità, in quella stanza privata – e quindi segreta – che dà il titolo al libro stesso. Il fatto che l’autore si sia messo nei panni di un tipico ragazzo bianco americano carica ancora più di valore oggi il libro, che fu una confessione scomoda all’epoca (uscì nel 1956). Anticipato, potremmo notare, solo da una precedente confessione, quella dello scrittore italiano Carlo Coccioli, anch’egli residente a Parigi, il quale nel 1952 pubblicò un libro allucinato della propria omosessualità (con un dissidio esacerbato dal suo essere anche cattolico) molto vicino ai percorsi esistenziali de La stanza di Giovanni, benché dalla più complessa struttura meta-letteraria: parliamo del romanzo di culto Fabrizio Lupo – che arrivò in Italia dopo lungo boicottaggio solamente nel 1978.

Di posizione black eccentriche, anche per quanto riguarda influenze e stile, è sicuramente innervato anche l’autore ghanese-americano Nana Kwame Adjei-Brenyah, che è recentemente uscito per Sur edizioni con la raccolta di racconti d’esordio eccellente Friday Black – avendo come padrino George Saunders non c’era da aspettarsi altro. Sono racconti distopici, visionari, attratti dalla fantascienza e con una matrice che si direbbe avant-pop, ma pur sempre legati alla cronaca di oggi, i suoi. E rispetto ad altri autori afroamericani, Adjei-Brenyah usa uno spiccato senso della comicità che non è mai cinica, ma piuttosto liberatoria capacità di mettersi – come in Baldwin, ma in modo più grottesco e iperbolico – anche dal punto di vista di un diverso non sempre amichevole. Il titolo ci dà ovviamente l’idea che una delle componenti più forti sarà quella tecnologica legata però alla società di massa e di consumo, descritta tra l’horror splatter e il distopico alla Black Mirror. La title track racconta proprio la follia compulsiva che porta i personaggi ad assaltare un negozio nel giorno del Black Friday (che si terrà tra l’altro il prossimo 29 novembre), celebrazione senza alcuna radice storica e identitaria del puro acquisto costi quel che costi.

Nel primo racconto emblematico, I cinque della Finkelstein, l’horror diventa quasi il modello per raccontare esagerando la realtà americana di Black Lives Matter. Un uomo ha decapitato cinque ragazzi di colore – alla domanda del perché l’abbia fatto risponde “ho protetto i miei bambini” – e da questo gesto scaturiscono violentissime rappresaglie in difesa di una nerezza come valore esclusivo di rabbia e vendetta. In un altro racconto, Zimmer Land – dal nome di un altro uomo (stavolta reale) che uccise un giovane afroamericano per poi venire assolto – si descrive un parco giochi dove

le persone possono sfogare le proprie insicurezze e paure commettendo le peggiori ignominie, difendendo la propria casa dai ladri, sventando attentati terroristici ma anche picchiando neri in una stazione di polizia. Il razzismo come intolleranza dell’altro e del diverso, nell’incapacità di condividere una comunità, è fantascienza ovvero qualcosa di inaudito oggi, dopo quasi un secolo di lotte e conquiste. Oppure è ancora uno dei tratti più weird del nostro futuro condiviso e ipertecnologico? Che succede se il Futuro pensato come Migliore si ammanta anche delle ombre del Peggior Passato? Sembrano queste alcune delle principali domande che risuonano nella raccolta, domande dalle quali nessuno, nero o bianco che sia, può sentirsi totalmente assolto.

Guardando all’America da una posizione scomodissima, attraverso una sorta di requisitoria della propria infanzia e formazione (scolastico-linguistica e famigliare) – in attesa di verificarne, in fondo, una matrice suprematista bianca quasi ineluttabile per l’americano medio – è tornato in libreria Ben Lerner, il re dell’autofiction americana – con il suo romanzo The Topeka School di qui molti stanno già parlando (presto da noi con Sellerio). Ritroviamo anche qui il protagonista Adam Gordon di Un uomo di passaggio ma negli anni Novanta a Topeka, in Kansas, nel suo coming-of-age. La narrazione è tripartita e condivisa tra Adam e i suoi genitori, Jonathan and Jane, psichiatri di New York che hanno aperto nella provincialissima Topeka una Fondazione per lo studio degli effetti fraudolenti della retorica del linguaggio e dello speech shadowing (la ripetizione compulsiva di parole già ascoltate). Adam è tra l’altro dalla sua un abilissimo retore a scuola, vincitore di diversi dibattiti pubblici, amante del freestyle rap col sogno di diventare poeta. Ma nel contesto conservatore di Topeka imparerà anche gli usi e i costumi del maschilismo intollerante, ispirato all’ideale del Marlboro Man, specie a danno dall’amico bullizzato Darren, ragazzo con deficienze cognitive che verrà lui stesso spinto alla violenza. Quello stato di adolescenza rabbiosa pare per Lerner – che non risparmia però l’America intellettuale e Wasp rappresentata dai genitori del libro – una costante anche nei suoi ultimi risvolti. Si legge nel libro che gli americani “sono individui, anche robusti, ma in realtà sono svuotati, isolati, uomini di massa senza una massa, sebbene non siano uomini, ovviamente, ma ragazzi, ragazzi perpetui, Peter Pan, uomini-bambini, poiché l’America è una adolescenza senza fine”. E questo, parlando di atteggiamenti adolescenti, è un romanzo che parla molto anche implicitamente di come gli hater e i troll dell’alt-right americana possano operare oggi nel linguaggio, svuotandolo di senso il discorso pubblico per davvero ferire l’avversario.

Di destra americana pare anche parlare l’omaggio-sequel tv di un classico della graphic novel, Watchmen (oggi pubblicato anche affiancato a qualche prequel curato da Brian Azzarello – famoso per il fumetto 100 Bullets – per la Lion edizioni). Il capolavoro di Alan Moore e Dan Gibbons, celebrato come il Moby Dick che ha cambiato per sempre la scrittura del fumetto stesso, è stato trasposto nella serie Hbo in un contesto che chiaramente ha a che fare con l’argomento di questa settimana. La serie si apre infatti con il racconto per immagini del Massacro di Tulsa, fatto minore della storia recente, dove un’intera comunità afroamericana nel 1921 venne massacrata, bombardata e uccisa (il conto dei morti oscilla da 30 a oltre 300) da suprematisti bianchi e loro affiliati, per via di un pretesto infondato. Gli avvenimenti raccontati fanno della serie un sequel del fumetto (divenuto anche film del grande schermo) che rimaneggia di molto alcune sue conclusioni – se di conclusioni si possa parlare in Watchmen. Troviamo che il potentissimo dio atomico Dr. Manhattan si trova sempre esiliato su Marte, che Silk Spectre sua amante è diventata una spietata poliziotta Fbi anti-vigilantes, che gli stessi vigilantes sono ancora banditi per la famosa legge Keene del 1977, ma che alcuni di loro, come l’eroina afroamericana Sister Night, lavorano in incognito per la polizia.

È lo stesso corpo della polizia il più colpito da alcuni ripetuti attacchi del gruppo terrorista di estrema destra della cosiddetta Settima Cavalleria, che mira a destabilizzare la società americana, in cui la comunità afroamericana non è solo rispettata dal presidente americano Redford, ma anche ricompensata dalla legge per i numerosi torti storici subiti. Tutto questo non era forse in nuce presente nella storia anarchica e visionaria scritta da Alan Moore (che infatti si è subito distanziato dall’operazione), sebbene abbia affinità negli sviluppi gli aspetti di violenza inconsulta, di riflessione sugli estremismi di una società americana che si è sempre sentita estranea al nazismo, oltre ad un offrire un continuo rovesciamento dei piani tra vigilanti e vigilati, estremisti e il loro contrario. Il punto d’unione è sicuramente poi Rorschach, il violento e psicolabile vigilante dall’identità scissa del fumetto originario – macchiatosi in qualità di Walter Kovacs di simpatie destrorse, e al quale il Settimo Cavalleria dichiara d’ispirarsi, indossando la sua emblematica maschera con le macchie del test. “Quis custodiet ipsos custodes?”,Chi vigilerà sugli stessi vigilanti”, era la domanda che ricorreva nel fumetto. Troveremo noi stessi sotto la maschera di Rorschach?, pare domandarsi la serie tv americana, dando adito a una chiara dimensione politica.

Seguendo una linea che ci tiene legati ancora alle graphic novel, abbandonando però in parte gli Stati Uniti, e ritornando in Europa, parla di radici scomode il libro Heimat della tedesca-americana Nora Krug, miglior graphic novel del 2018 secondo il New York Times e uscito quest’anno per Einaudi Stile Libero. Il libro è il contrario della ricerca di un’assoluzione possibile dalle colpe di essere parte di una genealogia famigliare che lega la famiglia Krug al nazismo tedesco. L’autrice attraverso archivi, cimeli e nodi famigliari interroga i suoi nonni e zii scoprendo verità scomode che erano state celate, non solo a lei, ma a un’intera generazione di nipoti della Germania del dopoguerra. Tra sentimento ed oggettività, alternando il disegno molto vivace al collage sovrapposto di foto d’archivio e lettering, o estratti che rivelano l’antisemitismo freddo e terribile agli occhi di un’autrice oggi sposata con un ebreo americano, Heimat è in fondo la risposta poetica alla ferita di aver visto un’intera generazione storica abbracciare l’ideologia folle di Hitler. Ma non risparmia nemmeno l’America d’adozione: “Dopo dodici anni che vivo in America… dove non si pensa mai al peggio nella convinzione che non succederà niente di brutto finché non succede; e dove l’adulterio può impedirti di ottenere la cittadinanza quanto aver militato nel partito nazista – mi sento più tedesca che mai”, scrive la Krug.

Ma come si vivono gli effetti del terrorismo odierno in Europa nella vita delle persone? Arriverà in Italia a gennaio 2020 per edizioni E/O, il molto chiacchierato Il lembo, il memoir di Philippe Lançon, giornalista di Liberation, sopravvissuto all’attacco terroristico alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015. Il libro, tra confessione e diario di rinascita, parla essenzialmente di due ricostruzioni, l’una fisica (quella della sua mandibola maciullata dall’attentato e lentamente ricostruita da premurosi addetti sanitari) e l’altra esistenziale, circondato dalle persone care così come dai numi tutelari della letteratura, Shakespeare, Proust (ma anche Houellebecq, chiamato in causa più volte per via di Sottomissione). “Quello che non sapevo è che l’attentato mi avrebbe fatto vivere ogni minuto come se fosse l’ultima linea [scritta]: dimenticare il meno possibile si trasforma in essenziale quando uno all’improvviso diventa estraneo a ciò che ha vissuto, quando sente che perde ovunque”, scrive l’autore, parlando dell’esigenza di ritornare a vivere dopo momenti e settimane di estraneità assoluta dalla vita.

Chiudiamo quindi questa carrellata nell’odio e nell’intolleranza arrivando al nostro paese, dal quale eravamo idealmente partiti con preoccupazione. Un antidoto all’intolleranza lo si può forse trovare in una recente operazione editoriale: il libro curato da Igiaba Scego, per Effequ, dal titolo Future. Le “future” scrittrici di questa antologia di racconti sono loro ed è giusto nominarle: Leila El Houssi, Lucia Ghebreghiorges, Alesa Herero, Esperance H. Ripanti, Djarah Kan, Ndack Mbaye, Marie Moïse, Leaticia Ouedraogo, Angelica Pesarini, Addes Tesfamariam e Wii. Nell’idea di poter descrivere un prossimo canone dell’afro-italianità alla femminile, nonostante le difficoltà di un’integrazione e crescita in un’Italia ancora troppo white, molto maschilista e poco inclusiva, questo libro di esordienti o quasi tali ci dona la speranza che le cose possano cambiare, le radici scomode dell’Italia coloniale chiarirsi, il linguaggio dell’italiano narrato variare grazie alla loro influenza e ibridazione, fugando le nebbie di rigurgiti fascisti e suprematisti.

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