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sabato, Mag 09

L’importanza dei riti durante la crisi del coronavirus



Da Wired.it :

Il coronavirus ha dimostrato che durante le crisi eseguiamo più riti, ma perché ne abbiamo bisogno? L’antropologia dei disastri ci offre una chiave di lettura

All’Istituto Pasteur il personale medico balla durante il quotidiano tributo delle 20 agli eroi che combattono contro il coronavirus (VALERY HACHE/AFP via Getty Images)

Se escludiamo le abitudini (come il caffè) la parola rito ci sembra arcaica quanto quello che definisce. Cioè una pratica culturale, una performance se vogliamo, che viene ripetuta con certe regole. La crisi del nuovo coronavirus ha dimostrato che, più che arcaici, i riti sono qualcosa di ancestrale, una necessità degli esseri umani e che li definisce come tali.

I canti dai balconi, gli omaggi e gli applausi, gli arcobaleni, le candele esposte, le processioni di simboli sacri (alcuni dei quali si narra avrebbero fermato questa o quella pestilenza), le preghiere collettive. Laici o devozionali, i riti associati alla pandemia sono sempre più evidenti e parte della nostra quotidianità. Da tempo gli antropologi sanno che in situazioni di crisi i riti aumentano, ma secondo Giovanni Gugg questo fenomeno è abbastanza distinto da meritare una trattazione separata. Docente di antropologia urbana alla Federico II di Napoli e ricercatore associato all’Università Côte d’Azur di Nizza, Gugg ha coniato l’espressione riti in emergenza dopo aver studiato in particolare il rapporto delle popolazioni col rischio vulcanico del Vesuvio.

A cosa servono i riti in emergenza

“Nei disastri si perdono due punti di riferimento – spiega a Wired l’antropologo, ora a Nizza – Uno è il territorio, che viene distrutto. L’altro è la comunità, che viene sconquassata dalle morti improvvise e dallo sfollamento”. In queste eccezionali condizioni i vecchi riti si adattano, e ne nascono di nuovi. Sono dei modi con cui le società rispondono a questi sconvolgimenti. Attraverso i riti si mette in comunione il dramma, si esprimono le emozioni da esso generate, e si cerca di assorbirne lo shock.

Ma che senso ha, nel XXI secolo, quel crocifisso esposto fuori dalla Chiesa a Brescello durante la pandemia, un gesto presto imitato da altri? Di certo non di più di quanto ne avesse la Madonna che, portata nel 1822 in processione a Torre Annunziata, si dice abbia fermato la lava del Vesuvio. Nel 2016 invece, dopo il terremoto, ad Ascoli Piceno e a Norcia le persone si sono radunate a pregare Sant’Emidio, che dovrebbe proteggere dai terremoti. Il cinico direbbe che è un po’ tardi.

Per gli antropologi però queste credenze sono solo una facciata del fenomeno, e anche la fede c’entra relativamente. Le immagini religiose non fermano lava o pestilenze (anche se poi è quello che sarà raccontato), ma il rito in emergenza è uno dei meccanismi con cui le comunità, su un piano emotivo, affrontano l’improvvisa incertezza.

Ai balconi

Ma lo stesso discorso si può fare anche con con manifestazioni laiche. Prendiamo il famoso andrà tutto bene con l’arcobaleno. I bambini di tutta Italia lo hanno disegnato ed è stato esposto fuori dalle case.

Razionalmente sappiamo benissimo che non va tutto bene, e sappiamo che ripeterlo non lo farà accadere. Ma il rito, in questo caso in forma embrionale, non si muove sul piano razionale, ma su quello emotivo. Come ha detto l’antropologo Jean Cazeneuve, quanto più i riti sembrano assurdi, tanto più sono necessari”.

Un discorso simile vale con tutte le manifestazioni organizzate ai balconi. A gennaio, quando il coronavirus ci sembrava lontanissimo, gli abitanti di Wuhan hanno cominciato ad affacciarsi alle finestre, a orari stabiliti, per gridare Wuhan resisti. Poi in tutta Europa abbiamo visto ed eseguito riti simili. Secondo l’antropologo: “Il suono (il canto, la musica, le campane…) e la luce (le candele, i monumenti illuminati con il tricolore…) hanno sopperito alla distanza, tessendo legami sonori e visuali che ci hanno tenuto insieme per qualche minuto, ma abbastanza per non tagliare i legami, perché altrimenti ci saremmo sentiti come naufraghi in mezzo all’oceano dopo una tempesta, cioè ancora più disperati”.

Rito e potere

Dire che questi riti esistono e hanno una funzione sociale, non equivale a dire che siano sempre benigni. Il discorso è simile a quello delle leggende metropolitane. Il ricordo edulcorato e distorto di un rito in emergenza (come quello di un’immagine sacra che, in qualche modo, avrebbe evitato disastro), può dare a una comunità l’illusione di essere immune a un disastro successivo, e generare una falsa sicurezza. Oppure i riti possono servire ad allontanare le colpe dalla comunità, attribuendo le cause del disastro ai classici capri espiatori.

Un altro aspetto importante è l’uso dei riti in emergenza da parte del potere. L’organizzazione di un rito può partire (e spesso lo fa) dall’alto, ma anche quando parte dal basso (e ha successo) l’autorità può tentare di mediarlo. Per esempio nella laica Francia, durante i primi giorni di lockdown, tutte le campane della nazione suonavano alla stessa ora. Da due mesi invece ci si dà appuntamento alle 20:00 per applaudire i protagonisti della lotta alla pandemia (dai medici ai fattorini). Le amministrazioni locali hanno cominciato a incoraggiare i cittadini a partecipare al rito, per esempio chiedendo foto e video da condividere sui propri canali social.

In Gugg nota anche la stretta vicinanza, se non fisica almeno mediatica, tra i religiosi italiani che compiono riti durante la pandemia e gli amministratori delle comunità, a partire dai sindaci. Le autorità, religiose e non, si servono della forza dei riti in emergenza per tentare di ristabilire l’ordine sociale preesistente, di ribadire il loro ruolo come guide. E a questo proposito non è casuale la rapidità con cui anche le varie chiese si sono adattate a una sacralità via social: dalle messe su instagram dei preti fino alla scenografica benedizione del Papa davanti a una piazza San Pietro vuota (17 milioni di telespettatori). E in quell’occasione, alle spalle di Bergoglio, si trovava anche il crocifisso di San Marcello, quello che secondo la leggenda popolare (ora anche mutata in catena di Sant’Antonio) avrebbe fermato la peste.

L’antropologia dei disastri aiuta a mitigarli

Distanziamento sociale: abbiamo sentito questa espressione fino alla nausea, e continueremo a sentirla. I riti in emergenza sono l’ennesima dimostrazione di quanto sia infelice. Rispondere all’epidemia richiede più socialità, non di meno. Collettivamente abbiamo dimostrato di saperlo fare mantenendo il distanziamento fisico necessario, anche eseguendo gesti apparentemente senza significato come i riti in emergenza. Quali sono, però, le applicazioni di questo tipo di conoscenze?

Al di là dell’ambito specifico dei riti, Gugg spiega che lo studio antropologico dei disastri si è intensificato in Italia dopo il terremoto a L’Aquila (2009), mentre all’estero era già successo dopo lo tsunami in sud-est asiatico (2004) e l’uragano Katrina negli Stati Uniti (2005). Rispetto alle crisi future, il lavoro svolto dagli antropologi dovrebbe essere preso in considerazione nell’ambito della comunicazione del rischio e in particolare nel coinvolgimento delle comunità per migliorare la pianificazione dell’emergenza.

Gugg cita il caso dell’esercitazione sul rischio vulcanico Exe Flegrei 2019, organizzata dalla Protezione Civile lo scorso autunno. La zona dei Campi Flegrei è strettamente monitorata dai vulcanologi, che le hanno assegnato un livello di allerta giallo (il Vesuvio è verde). Ci abitano più di mezzo milione di persone, eppure la partecipazione all’esercitazione, in tre giornate, si è limitata a qualche migliaio di cittadini. Qualcuno ha parlato di flop, e in molti hanno provato a spiegarlo nel solito modo, cioè colpevolizzando la popolazione, evidentemente troppo ignorante e/o menefreghista per capirne l’importanza.

Esperti e non

Fare l’ennesima paternale però non serve ed è controproducente. L’antropologia dei disastri ci insegna che questi comportamenti non derivano necessariamente dall’ignoranza del rischio, o passività. Le cause sono profonde, storiche. Dovremmo cominciare a cercarle, per esempio, nell’abbandono del territorio, o nell’ascensore sociale bloccato da decenni. In altre parole, una lunga esperienza ha insegnato agli abitanti che in quelle zone l’impegno non porta frutti. Quindi rispondere alla domanda “Perché in pochi hanno partecipato all’esercitazione?” richiede analisi più documentate di un elzeviro. Inoltre quell’esercitazione imperfetta è un punto di partenza, non un flop. L’esperienza deve essere elaborata e discussa, sia da chi ha partecipato che da chi non ha partecipato. Sminuire la comunità in cui deve accadere questo processo non sembra particolarmente produttivo.

“La partecipazione e la preparazioneha scritto Gugg a margine di quell’esperienza – così come la loro assenza, sono dei prodotti storici: si costruiscono socialmente. Detto in altre parole, l’impreparazione e l’indifferenza si costruiscono tanto quanto l’addestramento e l’interessamento“.

“Il ruolo dell’antropologo in queste situazioni è rompere lo schema sapienti contro ignoranti. Non perché le competenze non siano necessarie, ma perché è giusto ed efficace il coinvolgimento e l’ascolto dei cittadini” conclude lo studioso.

Una lezione di cui forse dovremmo fare tesoro anche in questa pandemia, e nella prossima.

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[Fonte Wired.it]