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domenica, Lug 19

L’insperata attualità di Natalia Ginzburg



Da Wired.it :

Nella settimana che avrebbe segnato il suo compleanno, proviamo a rivivere l’impegno civile e l’eroismo dell’autrice di Lessico famigliare, ma anche il racconto dei linguaggi, gesti e nostalgie della famiglia che ha reso celebri

(foto: Getty Images)

Il 14 luglio è stato il compleanno di Natalia Ginzburg. Autrice solo da poco veramente celebrata, riscoperta anche in America qualche anno fa in importanti operazioni di traduzione, il suo famoso Lessico famigliare sta tornando a fare il giro del mondo, mentre in Italia viene riletta e commentata, anche grazie al libro di Sandra Petrignani, La corsara, che ne descrive la vita coraggiosa e non facile, le amicizie con grandi del Novecento come Pavese e Calvino, i successi ma anche i drammi.

La vita della scrittrice, traduttrice e saggista è stata infatti costellata di lutti e difficoltà – celebre soprattutto quello del marito torturato e ammazzato in carcere di Regina Coeli nel 1944 – quanto di importanti riscatti e ripartenze (in linea con quelle post-Covid, se vogliamo) – con un’attenzione particolare al filo della memoria. Rileggendo oggi le sue opere ci si chiede come le sue eroine reagirebbero alla nuova difficoltà globale e alle nuove, chiamiamole così, trame familiari durante la pandemia, oppure di fronte a strani rigurgiti anti-aborto

Lessico famigliare come sarebbe scritto? Il romanzo più famoso è l’affresco dal tono melancolico e ironico assieme, tra fiction e memoir della famiglia ebraica e antifascista dell’autrice, i Levi, fatto attraverso l’intimità dei gesti e modi di dire, della ricomposizione della memoria (e delle sue lacune) attraverso le piccole cose e i legami con tutti i componenti. Ma è anche, dall’interno, il racconto di quello che, di terribile, accedeva “là fuori”: in Italia da metà degli anni Venti ai Cinquanta, con l’ascesa del fascismo, Mussolini, la persecuzione degli ebrei, la lotta partigiana e lo sfiorire di certi miti nel dopoguerra. 

Celebri i ritratti dei familiari, della sorella Paola e in genere dei fratelli, per lampi all’interno del romanzo, ma soprattutto quella dei genitori, come quello della madre Lidia, la sua “natura così lieta, che investiva ed accoglieva ogni cosa, e che di ogni cosa e di ogni persona rievocava il bene e la letizia”. O quelle del severo padre Giuseppe, che sbotta e sbraita verso i figli – benché non li punisse mai veramente – che era ciononostante avverso al fascismo e la sua demagogia.

I destini di questi famiglia si separeranno, ma rimarrà sempre il loro lessico, il loro linguaggio privato: “Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: «Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna» o «De cosa spussa l’acido solfidrico», per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza”. 

Sebbene, ricordiamolo, il romanzo stesso della Ginzburg sia fondato sulla labilità della memoria perché, come dice la Ginzburg ad esordio, “i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito”. 

In tempi di mobilità interrotta e di forzato rapporto con i propri spazi domestici attraverso smart working e chiamate Zoom, varrebbe la pena rilegge un altro studio dell’ambito famigliare recente riproposta da Einaudi (editore per eccellenza della Ginzburg): La città e la casa, romanzo della maturità costruito sotto forma di romanzo epistolare come altri dell’autrice. Le corrispondenze sono quelle di un gruppo di persone sconvolte da cambiamenti storici, nella nostalgia della comune casa di campagna chiamata Le Margherite

Il protagonista di questo vortice di persone che parlano dall’intimo come facessero parte di un social network ante litteram è Giuseppe. Uomo che è fuggito in America all’improvviso – “vengo in America come uno che ha deciso di buttarsi nell’acqua, e spera di uscirne fuori o morto, o nuovo e diverso” – e che vive di rimpianto e nostalgia. Ma attorno a lui abbiamo persone vicine e lontane, in mezzo a partenze, morti, invecchiamenti e nascite: vicine come il figlio gay Alberico, forse l’unico che veramente ce la fa nel romanzo oppure Lucrezia, una vecchia amante di Giuseppe, donna intensa quanto costantemente bisognosa di affetti, ora in fuga dal matrimonio. Il romanzo racconta anche forse la vacuità di certi anni Sessanta italiani. 

Altro importante romanzo epistolare della Ginzburg è certamente Caro Michele – dal quale Monicelli ha tratto il film omonimo – incentrato sulla figura dello stesso destinatario, fuggito per motivi di militanza (sono gli anni delle contestazioni giovanili) e non solo, e costruito su molteplici lettere di figure in primis femminili quali la madre Adriana, che soffre la distanza di questo personaggio come la sorella Angelica, e l’ex-amante Mara.

Michele è un giovane ragazzo degli anni Settanta molto disorientato dai tempi, e la sua assenza terribile è colmata solo da qualche risposta alla corrispondenza. Che tipo di vita ha Michele?, si domanda il lettore, leggendo il quotidiano banale e spesso terribilmente vuoto delle donne che gli scrivono o lo de-scrivono in modo prismatico, fino ad un forte epilogo. 

Caro Michele è un libro perfetto, anche strutturalmente per misura sul concetto di distanza anche generazionale e allo stesso tempo un libro che, pur presentando una figura maschile centrale, racconta il vuoto della famiglia e della casa abbandonata anche dallo sguardo delle donne. Se manca un padre, un uomo – e qui la Ginzburg rivela forse i limiti del patriarcato assorbito dalle scrittrici del Novecento – manca però anche la cura delle donne. “Tu dici che non vuoi sulla tua persona, in questo momento, gli occhi delle persone che ti amano” dice la madre a Michele, gli occhi che cercano di ricomporre lo spazio di una casa quando la realtà là fuori (la storia) si sfascia altrettanto, uno dei topoi classici della Ginzburg. 

Proseguendo questo percorso in ricordo della Ginzburg, non possiamo non segnalare, per originalità, quel saggio particolare in cui l’autrice riversa la sua sapienza nel ritratto famigliare su un percorso sui generis: quello nella famiglia di Alessandro Manzoni. Cosa è infatti La Famiglia Manzoni se non il risvolto di tanti suoi romanzi in forma di biografia storica?

Ha scritto l’autrice: “Ho tentato di rimettere insieme la storia della famiglia Manzoni; volevo ricostruirla, ricomporla, allinearla ordinatamente nel tempo. Avevo delle lettere e dei libri. Non volevo esprimere commenti, ma limitarmi a una nuda e semplice successione di fatti…” dove in modo magistrale Alessandro Manzoni emerge come protagonista senza davvero emergere. 

Alessandro Manzoni è il mito della famiglia ma anche un padre terribile e dispotico, e viene raccontato così, come un uomo terribilmente umano, come nel procedimento di Caro Michele quasi più per assenza da altre relazioni, legami e corrispondenze, quelle di Giulia Beccaria (la madre) o ad esempio del figliastro Stefano Stampa. 

Come nei libri precedenti, e seguendo un periodo che va dalla nascita della madre a metà Settecento, alla morte di Stefano nei primi del Novecento, si susseguono incomprensioni, lutti ed anche la profonda vacuità dell’esistere quotidiano, attraverso però il meccanismo originale dell’uso studiato di stralci di lettere reali dopo un lungo studio, più da scrittrice che da studiosa.

A conclusione parziale – a fronte di una vasta produzione – per chi volesse proseguire sul lato più cronachistico e personale della Ginzburg, ritornando al fascino della sua vita, vale la pena considerare il volume Le piccole virtù a cura di Domenico Scarpa. Dove si raccolgono i tanti ritratti di amici e mariti, i bozzetti a volte ironici del ricordo personale del dopoguerra, l’afflato spesso moralista della Ginzburg che considera l’educazione dei figli alle piccole virtù – “non il risparmio, ma la generosità e l’indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l’astuzia, ma la schiettezza e l’amore alla verità…”.

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[Fonte Wired.it]