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giovedì, Dic 12

L’intelligenza artificiale può fruttare 500 miliardi


Il potenziale di crescita nei prossimi dieci anni è trainato dagli Usa. Ma l’Europa va bene a livello di tutele legali del dato

intelligenza artificiale
(foto: Manjunath Kiran / Stringer / Getty Images)

Il potenziale di crescita dell’intelligenza artificiale ha numeri assai interessanti. La società di consulenza McKinsey stima un +23% nel periodo 2017-2030 per un valore complessivo di 500 miliardi di euro. Tutti la vogliono, tanti dicono di sfruttarla, molti hanno iniziato ad approcciarla, pochi veramente la stanno implementando. “I servizi finanziari sono il settore in cui avrà più successo e sarà più utilizzata nei prossimi dieci anni”, spiega Walter Rizzi, partner di McKinsey: “Si stima un +45% di utilizzo per un valore di 250 miliardi”. Segue l’energia, al secondo posto con +34% per 170 miliardi in totale.

Non basta farla propria, un’azienda, una società, deve innanzitutto svilupparla per sfruttarne tutte le potenzialità al meglio. “Visione strategica, competenze, talenti e investimenti diretti sono indispensabili”, commenta Rizzi. “In questo l’Europa è molto indietro, in tutti i campi. E l’Italia è sotto la media europea”. Per rendere l’idea gli Usa e la Cina guidano la corsa all’adozione dell’ia. Gli Stati Uniti allo stato attuale stanno investendo in Ia circa lo 0,30% del loro pil (in settori vari, anche legati al mondo militare). La Cina lo 0,06%, l’Europa lo 0,01%.

In Italia le realtà che la stanno implementando sono l’86%, solo il 3% è in fase avanzata”, prosegue Rizzi. Sotto il cappello di applicazioni che utilizzano l’ia rientrano anche i chatbot, per esempio, ormai molto popolari ma sicuramente non uno stadio alto di resa di una tecnologia che ha potenziali ben maggiori. “Ma c’è anche la cybersecurity, tra i fattori principali di adozione dell’ia“.

A essere frenanti in questo senso sono le difficoltà che le aziende riscontrano per avviare progetti. “Si preoccupano degli investimenti, ma anche dell’impatto sui lavoratori e su come le loro competenze debbano cambiare”.

Gli aspetti legali

A mutare deve essere la forma mentis, e un passaggio deve essere fatto anche a livello valoriale – precisa Giangiacomo Olivi, partner dello studio legale Dentons – siamo ancora in una fase iniziale. Nel mondo legale stimiamo che servano altri due anni perché entri completamente a regime”.

Ma i punti di contatto tra ambito legale e Ia vanno oltre. “Partiamo da un assunto: ogni secondo 127 nuovi device si connettono a internet – dice Olivi – le regole e le norme esistenti sono in grado di gestire questo cambiamento? I principi giuridici ci sono, e hanno la capacità di gestire tutto, anche se la situazione è comunque tumultuosa. Dal punto di vista tecnico legale, l’intelligenza artificiale è meno rivoluzionaria della blockchain”.

L’Europa ha cercato di recuperare il gap che la separa da altri Paesi anche con una strategia normativa più puntuale, ecco quindi che è stato introdotto il Gdpr, che “promuove il progresso tecnologico digitale legato all’ia. Non è così per la blockchain. I vari nodi sparsi di cui è costituita non aiutano a capire chi sia il titolare dei diritti, e quindi per esempio chi può cancellare certi passaggi”, va avanti Olivi.

L’Europa con il Gdpr ha acquisito più potere. Non ovunque nel mondo si è arrivati a simili soluzioni. “In Cina è stata scritta una norma relativa alla sicurezza del dato. Da noi invece è l’opposto: il diritto alla sicurezza è fondamentale e personale, riferito al singolo, a sua tutela”, conclude Olivi.

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