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sabato, Mag 02

Luciano Bianciardi e la complicata fase due dei lavoratori italiani



Da Wired.it :

Dai minatori della Maremma fino ai freelance ante litteram a Milano, l’autore de La vita agra ci ha parlato dei settori più colpiti dalla crisi economica post-pandemia

Quest’anno il ponte del 1° maggio che tutti aspettavano è stato sicuramente differente rispetto alle attese. Alcune regioni hanno consentito di camminare un po’ di più oltre le prossimità di casa, e forse una flebile luce si avverte alla fine del tunnel del desolante lockdown globale. Il mondo del lavoro oltre che a quello della sanità, ovviamente è stato squassato da questa pandemia: negli Stati Uniti si registrano già milioni di disoccupati, e nel nostro paese non va certo meglio. 

Tra i settori pesantemente colpiti c’è anche quello culturale, dai teatri (in mobilitazione) all’editoria (in perenne crisi), dai giornalisti a tutti quei lavoratori precari della conoscenza e dell’educazione che oggi sono ancora più precari, ma a volte oberati in un lavoro con ben poche condizioni di salute ideali. Per questo oggi il nostro scrittore e santo protettore sui generis non poteva che essere Luciano Bianciardi, un autore outsider di culto al centro di varie riscoperte e spesso immortalato o rievocato in libri altrui (nonché nella nota canzone dei Baustelle, Un romantico a Milano).  

Infaticabile lavoratore a cottimo, traduttore, giornalista, voce della provincia italiana e ideale Unabomber intellettuale della società del Boom italiano, Bianciardi come mito ha esordito con I minatori della Maremma, scritto a quattro mani con Cassola. I minatori, che di recente minimum fax ha riportato in libreria, non è una semplice inchiesta sulle condizioni terribili dei lavoratori delle miniere delle Colline metallifere e del grossetano nei primi anni Cinquanta, dove tutto ruota e anticipa la tragedia del pozzo della Ribolla del 1954, che Bianciardi definì non una “tragica fatalità” ma un fatto dovuto alla “consapevole inadempienza di precise norme di polizia mineraria” dove “la sciagura è successa perché non si teneva in sufficiente e doverosa considerazione la vita dei minatori”

Da questa citazione capiamo il senso del libro: è insieme un dettagliato trattato storico-sociale sulla Maremma le sue lotte politico-sindacali, quasi un’epica del sopruso industriale ed estrattivo di quelle zone – che non si chiude certo negli anni in cui gli articoli furono scritti – che si invera in una parte dove si dà voce alle storie e alle biografie degli stessi minatori, nelle loro condizioni fisiche e mentali, i loro visi sofferenti, le loro malattie. Sarebbe bello raccontare oggi, con questa voce unica, della tragedia di tanti lavoratori del settore sanitario che hanno perso la vita. 

Bianciardi fu chiamato nel 1955 in Lombardia, a Milano, per dare vita al progetto editoriale che oggi continua a pubblicare i suoi maggiori classici, Feltrinelli. Questo passaggio apparentemente di successo per un giovane intellettuale della provincia italiana, abituato a girare per le campagne e le strade dei lavoratori e ora catapultato nell’opulenta e vibrante Milano, fu però pieno di ostacoli e frustrazioni, nonostante in questo periodo ebbe l’opportunità di tradurre classici come i libri di Henry Miller. 

Di questa transizione scrisse in quello che è il primo dei tre romanzi (che sono allo stesso tempo pamphlet di critica culturale) di un trittico demolitore e anarchico sulla vita dei lavoratori della cultura: Il lavoro culturale. Un romanzo quasi autobiografico, dove però l’autore pare sdoppiarsi in due voci: Luciano Bianchi, il narratore, e il fratello Marcello, dove Bianciardi pare rappresentare come il fantasma di sé stesso, ovvero quello di un animatore culturale di provincia, intento a organizzare cineclub, dibattiti, che pensa con la propria attività formativa che la cultura possa riscattare le masse degli italiani travolti dallo sviluppo industriale.

Il lavoro culturale è il romanzo di una speranza e di una delusione assieme, quella per i partiti politici, per la piega che l’Italia del Dopoguerra sta prendendo, lavorativamente e socialmente parlando. Ed è anche il romanzo di una condanna al proletariato culturale, una nuova e sibillina forma di sfruttamento che perdura anche oggi, in piena pandemia e assenza ancora di tante tutele. Dove l’autore profetizza la perenne crisi del libro, andando all’origine: “Con l’invenzione della stampa, con l’uso della carta come materia scrittoria, con il successivo enorme progresso dell’arte e dell’industria grafica, è cominciata e si è andata aggravando la crisi del libro… In Italia la crisi è complicata dal fatto che moltissimi scrivono e pochissimi leggono”. Quanta profezia! 

Il legame tra Luciano Bianchi e Marcello continuerà nel secondo romanzo, L’integrazione, dove i due si trasferiscono epicamente nella città di Milano, bersaglio di una critica spietata al mondo dell’industria culturale ed editoriale, inebriata dai fumi del Boom. All’inizio per i due provinciali, che lavorano in casa editrice e hanno il compito ingrato di editare l’italiano dei libri, Milano appare come un miraggio invitante. Marcello rimane la figura eroica e idealista, l’unica che crede che i due fratelli siano arrivati nella megalopoli a cercare una mediazione, tra l’Italia provinciale di Grosseto e quella del Nord. 

Ma Milano è “un posto duro, cattivo, teso, assillato: tanta gente che corre, si dibatte, che ti ignora, che deve arrivare” e il fratello Luciano è quasi disposto a guardarla con sguardo sì sofferente, ma anche ironico e più disincantato (è l’altra faccia dell’anarchismo bianciardiano, quella disillusa). Ed è per questo forse che quest’ultimo si concede all’amore, prima della passionale Anna, donna di provincia disposta a sacrifici pur di incontrarlo, e poi però integrandosi in quello di Marisa, la tipica lavoratrice milanese. Ha rinunciato, come il fratello, alla genuinità della provincia toscana per abbracciare i ritmi massacranti del proletariato culturale. 

Il risultato più forte, soprattutto dal punto di vista dello stile, di questo rabbioso percorso nevrotico e realistico, nato con Il lavoro culturale e L’integrazione, è forse il libro di Bianciardi più famoso, La vita agra, dove gli effetti di questa conversione del provinciale alla vita milanese sono evidentissimi e portati all’estremo. Un romanzo sui generis che seppure di culto ha avuto una storia anche difficile, per via forse di una trama molto esile e poco romanzesca: tutto ruota intorno la pianificazione presto frustrata di un uomo alienato che trama un attentato alla sede della Montecatini (il famoso “torracchione di vetro e cemento”), rea di aver ucciso i minatori della Ribolla, trascurando le loro vite. 

L’uomo, lasciata la famiglia in provincia per la sua missione, presto però viene risucchiato dall’industria culturale, mentre apparentemente cerca una via di fuga carnale della relazione con una nuova compagna Anna, finendo per dover mantenere lei e la moglie, e quindi alienandosi ancora di più nel precariato editoriale e nella traduzione freelance – quella che lui chiama la professione“ quartaria”, dove disponibilità assoluta di tempo e gregarismo sono necessarie fino al supplizio, anche a discapito degli affetti e dell’eros. 

“Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”, si sfoga il narratore, tra rifiuto anarchico a non lavorare (“occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi rinunziare a quelli che ha”), che ha al suo interno anche una forte critica agli apparati del Partito comunista, fino alla spossatezza delusa e terribile di essere ingranaggio di un ingranaggio più grande.

Già manifestato come interesse ne I minatori, ci sono dei libri di Bianciardi che si rivolgono non tanto alla storia recente dell’Italia del Dopoguerra quanto la trasfigurano nell’Italia Risorgimentale, altro periodo storico di forti speranze che furono seguite da grandi delusioni. Tra questi, La battaglia soda e Aprire il fuoco. Questo secondo è particolarmente interessante, in quanto si tratta di un romanzo apparentemente ucronico che rivisita in modo anarchico le celeberrime Cinque giornate di Milano, che l’autore sposta nel 1959 sotto un dominio austroungarico dietro al quale si cela quello democristiano, e che popola di una selva di personaggi storici portati a braccetto in modo satirico nella Milano di Gaber e Jannacci, dove Carlo Cattaneo è direttore di un giornale dove lavora Giorgio Bocca, in tv ci sono eroi risorgimentali e, a detta del narratore, i giovani piuttosto che Che Guevara dovrebbero seguire Carlo Pisacane.

E che contiene un forte attacco al dominio bancaria sulla vita: “Il primo segno della maturità operativa (ma non soltanto operativa, anche ideologica, perché dietro una scelta tattica c’è sempre una convinzione meditata) è proprio questo: se essa occupa innanzitutto le banche, gli istituti di credito cittadini, dal primo all’ultimo, essa è una rivoluzione matura”.

Bianciardi, per questa suo spirito anarchico e stoico a un tempo, per tutta questa sua costante aggressione satirica e realistica a un’industria culturale che lui stesso visse sulla propria pelle in modo profetico, è divenuto autore di culto, forse anche suo malgrado. Molte le operazioni di recupero negli ultimi anni.  Ovviamente è da menzionare ExCogita, fondata dalla figlia Lucia, proprio per riscoprire l’opera bianciardiana. Dovremmo ovviamente menzionare Isbn, che con la summenzionata casa editrice si lanciò nell’operazione editoriale de L’Antimeridiano dell’autore, importante raccolta delle opere e soprattutto utile per leggere alcuni dei suoi racconti più belli. Abbiamo poi ritrovato il Bianciardi in tante opere contemporanee, ritratto, citato, parodiato. Raccontato nel romanzo-ritratto di Alessandro Zaccuri, Milano la città di nessuno, fonte di ispirazione per il romanzo d’esordio di Filippo Bologna, Come ho perso la guerra, così come chiaramente echeggiato in Amianto di Alberto Prunetti.

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[Fonte Wired.it]