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lunedì, Nov 18

L’ufficiale e la spia, Polanski, con amore maniacale per il dettaglio, ci cala in un’epoca



https://www.youtube.com/watch?v=Hd6eRZJvQ0E

Come tutti i grandissimi film anche L’ufficiale e la spia racconta tante storie dentro una sola trama. L’affare Dreyfus, cioè quella storia realmente accaduta che vide un ufficiale francese ebreo ingiustamente accusato e un movimento d’opinione molto forte che portò allo smascheramento di un fortissimo antisemitismo nell’esercito, è perfetta per un film d’indagine e questo fa Polanski. C’è quindi la storia dell’indagine, quella dell’antisemitismo, delle gerarchie militari della Francia tra ‘800 e ‘900 e poi c’è la storia di un uomo che lotta per quello che è giusto a prescindere da carriera e politica, quella di un esercito omertoso e in più Polanski ci mette la propria storia. Tutto raccontato attraverso i mezzi meno arbitrari e più insoliti: le carte e gli oggetti.

Se in L’uomo nell’ombra, il suo film del 2010, sempre scritto da Richard Harris, aveva lavorato con gli ambienti, con gli esterni e con le case per quella che era sempre una storia di un’indagine, qui lavora di pennini, foglietti e mobilio. Casseforti, materiali d’archivio, polverosi faldoni e una marea di supporti analogici oggi impensabili sono i custodi che nascondono un segreto e quindi la chiave per svelarlo. È su questo apparato per noi fuori dal tempo che il film insiste. C’erano mille modi diversi di raccontare quest’indagine, poteva essere una questione d’azione, di corse contro il tempo e risse, poteva essere una questione di convincimento di dialettica e mediazioni, invece Polanski ne fa una questione di bigliettini e carteggi, tutti maniacalmente controllati e inquadrati, come se volesse testimoniare e controprovare ogni passaggio.

E a partire da questo, da questa pornografia dell’indizio e della prova, può uscire un mondo. Perché senza bisogno che nessuno lo dica, quest’atteggiamento da solo è un dichiarazione fortissima riguardo i pregiudizi e l’arbitrarietà della verità e delle prove per l’appunto. Un’affermazione fatta con i mezzi del cinema da un cineasta con una condanna pendente dalla quale è fuggito ma per la quale continua ad essere perseguitato. Non che si identifichi con l’ebreo Dreyfus ingiustamente condannato (lui è reo confesso e si è anche pacificato con la sua vittima) ma di certo disegna un parallelo a partire dalla persecuzione. Colpevole o meno disegna un clima di ostilità che sente intorno a sé e lo fa con un film magnifico.

Non c’è esitazione possibile nel dire che L’ufficiale e la spia è il miglior film di Roman Polanski da anni a questa parte, uno sforzo incredibile per precisione e costanza lungo tutti i suoi 132 minuti per tenere un livello di qualità altissimo e usarlo per far correre la storia, fare in modo che non si sviluppi mai attraverso le parole ma sempre attraverso gli atti, in ogni snodo. Vedere la maniera in cui per ricostruire l’epoca Polanski lavori maniacalmente sullo storto, lo sporco e lo sbeccato crea un senso vivo di quel mondo. Sembra di guardare per la prima volta un film ambientato nel passato e diventa di colpo inaccettabile tutto il resto del cinema in costume, sempre perfetto e spolverato, sempre curato e lucido invece che lercio, trascurato eppure vivissimo come questo. Se il cinema classico ad oggi ha ancora una potenzialità è questa, la potenza di uno sguardo che lavora tantissimo con l’obiettivo di far sembrare che non ci sia stato lavoro.

Al centro di tutto c’è l’ufficiale di Jean Dujardin, un uomo con un senso di colpa che lo spinge a rimettere a posto ciò che ha capito essere storto. Non è il classico eroe da Polanski (solitamente il perseguitato è colui che seguiamo) ma un detective che non è tale ma se ne assume il peso per fare la cosa giusta. E Dujardin è bravissimo a non dargli emozioni visibili, a trattenere tutto in una smorfia di determinazione, in un tentativo di giungere alla meta sapendo che agitarsi troppo porterebbe ad un clamore non necessario. Allineato al resto del film è un agente che scopre prove, non un infervorato assaltatore di ingiustizie, il suo senso della verità lo matura al procedere del film, all’accumularsi di prove e verità.

Non è facile nemmeno iniziare a immaginare la fatica e lo sforzo richiesto per un simile livello di perfezione e costanza della messa in scena, per assicurarsi che ogni singola scena sia così curata e suoni come “quel mondo là”, non un ‘800 generico ma quello di questo film, unico e personale. L’800 in cui gli ebrei erano disprezzati anche tra i ranghi più alti, un ‘800 fatto di topi di biblioteca e uffici in cui si decriptano messaggi con il vapore, in cui tutto è manuale e artigianale per un film analogico come pochi se ne possono concepire, una gioia per ogni appassionato di storie d’indagini, una festa per ogni appassionato di cinema.

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