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Luigi Lineri, la sorprendente installazione creata nell’arco di una vita con i sassi del fiume Adige

da | Ago 16, 2025 | Tecnologia


Entrare nel mondo di Luigi Lineri non è mai immediato. Non per la strada che porta alla sua casa, con annesso fienile convertito in atelier e spazio espositivo, alla periferia di Zevio, comune nella campagna veronese a poco meno di mezz’ora di macchina dal capoluogo veneto. Lo è bensì per la sua diffidenza a far conoscere la propria storia e la sua incredibile installazione di sassi che ha raccolto nel corso di sessant’anni dall’alveo del fiume Adige, a poco più di un chilometro da casa. Diffidenza che nasce dalla delusione per l’accoglienza, fredda e di sufficienza, che la sua convinzione, sull’esistenza di un’antica civiltà del fiume Adige, ha trovato nel mondo scientifico e degli studi archeologici. L’accademia l’ha amareggiato, poichè, sbrigativamente, ha talvolta associato la sua ricerca al fenomeno psichico della pareidolia, tipica nei bambini, in cui nelle forme di paesaggi o di oggetti inanimati si riconoscono volti, tratti umani o di animali.

Il mondo di Luigi Lineri

Un dettaglio dell'installazione di Luigi Lineri

Un dettaglio dell’installazione di Luigi LineriRodolfo Hernandez

Le origini, l’educazione e l’approdo all’art brut

Nato nel 1937 ad Àlbaro, frazione di Ronco all’Adige, Luigi è il terzo di dodici fratelli: siamo a inizio Novecento ed era una normalità per quel periodo, la sua era una delle tante famiglie numerose e, quasi sempre, povere. Tuttavia, quella di Lineri, titolare di un negozio di calzature, era riuscita a dare al terzogenito la possibilità di studiare, sebbene questo abbia comportato l’allontanamento dal luogo in cui era nato. Infatti, dopo le scuole elementari nel paese natale, alle medie avviene lo sradicamento dalla famiglia e dal territorio di origine per frequentare il seminario dei Padri Comboniani a Trento. “L’allontanamento dalla famiglia deve essere stato molto doloroso per il ragazzo, se ancora oggi Luigi non ne parla volentieri e se, come ci riferisce la moglie, i suoi amici le hanno raccontato come, quando si trovava in collegio, fosse uso affacciarsi alla finestra che guardava sull’Adige e fantasticare di scappare per ridiscendere quel fiume che lo avrebbe così riportato a casa”, scrive, in un saggio, Daniela Rosi, storica dell’arte che ha dato un contribuito chiave alla valorizzazione dell’attività di Lineri inserendola nel filone dell’art brut.

Nata da una ricerca di oltre mezzo secolo, la visione dell’opera di Lineri lascia, chiunque la veda, senza parole. Si tratta di migliaia di esemplari, dalle forme diverse, che richiamano teste di ovini, equini, bovini, pesci, volti umani e parti anatomiche dell’apparato riproduttore femminile e maschile. Tutti esposti – dopo essere stati pazientemente incollati su supporti di legno fatti a mano e studiati per ogni singola forma – in serie da tre, cinque a volte nove o più esemplari assieme, in modo da portare alla nostra attenzione una testimonianza visiva di una civiltà esistita milioni di anni prima della nostra e che ancora ci osserva.

Una pietra assieme ad altre che evoca il profilo di una pecora o di un cavallo

Una pietra, assieme ad altre, che evoca il profilo di una pecora o di un cavallo

Rodolfo Hernandez

Il contesto e l’originalità della ricerca

Sempre meno frequenti che in passato, forse, le visite di curiosi, appassionati e scolaresche a questa sorta di “tempio”. Il sito internet, una schermata bianca con i contatti e il link alla pagina Facebook, avvisa che l’esposizione non è aperta al pubblico, rimandando a futuri aggiornamenti. Tuttavia, da qui sono passati gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Verona, nonché giornalisti e fotografi da tutto il mondo, studiosi e registi, perfino la Reuters. La meraviglia che si scopre è grande perché si tratta di qualcosa mai vista prima. Ma arrivare fino a qui non è stato di certo un percorso banale, tantomeno scontato: “Le mie difficoltà sono dovute al fatto che io non ho pagato critici d’arte o giornalisti. Nessuno può dire che ho pagato dei soldi perché qualcuno parli di me. Nella mia vita mi sono annientato in quella che per me è una grande ricerca, nella quale mi esprimo perché ho dato spazio alla mia fantasia. Qui c’è la fatica di una vita” ci racconta Lineri davanti alla sua esposizione. “Una metamorfosi tra una forma e l’altra”, nel passaggio da un animale all’altro: “Che poi uno veda la testa di un cane, di una pecora, di un pesce, se sono forme di passaggio volute o non volute non lo so, ma la ricerca è nata qui. Queste forme sono tante, e sono fuori, nel greto dell’Adige. Ho voluto dare importanza alla loro quantità”.

Guardando, viene da chiedersi se vi sia un intento di catalogare queste pietre, quasi a creare una sorta di classificazione di forme zoomorfe. Niente affatto. “Non si può catalogare, sono troppe – prosegue. “Anche se mi dicevano sempre: ‘bastano solo pochi esempi per dimostrare la tua teoria’, per me non è vero. La teoria è una cosa, la verità storica è un’altra. Il fatto che io abbia speso la mia vita per abbattere le resistenze che ho incontrato è perché ho voluto lavorare sulla quantità, che vuol dire massa, massa critica. Voglio che la gente traballi davanti alla forza della ricerca”.

Una visione d'insieme dell'installazione di Luigi Lineri

Una visione d’insieme dell’installazione di Luigi Lineri

Rodolfo Hernandez

La fatica di coniugare arte, vita e l’essere controcorrente

Come sia trascorsa la vita di questo signore ormai novantenne e della sua famiglia è un racconto piuttosto noto nel piccolo paese del veronese. In modo bizzarro, a dir poco: “Mio marito si è licenziato di nascosto dalla famiglia, perché sapeva che non glielo avrei mai permesso. E questo non sono mai riuscita a perdonarglielo” racconta, con rammarico, la moglie Tosca, al suo fianco da una vita. “Lui non riusciva, in parallelo, a dedicarsi al lavoro e alla sua passione per la pittura su ceramica o per i sassi. Quindi, quando ancora lavorava, nel fine settimana si dedicava totalmente a questa sua passione. Non voleva stare con i parenti o con gli amici”. Dopo essersi licenziato dal negozio di calzature, su spinta della moglie, Lineri riprende tuttavia a lavorare come infermiere all’Ospedale di Zevio, dove rimane fino a raggiungere il minimo per poter accedere alla pensione e, il 17 maggio 1988, lascia definitivamente l’impiego. “L’arte mi ha distrutto interiormente” confessa Lineri, “oltre ad aver distrutto anche la mia famiglia. Tuttavia, mi ha fatto capire quanto sia grande l’uomo nella sua miseria…”. Mentre lo dice, posa lo sguardo su un sasso davvero particolare che tiene esposto in cucina: “Quello, mi hanno detto di venderlo come un Modigliani, sembra un volto” afferma. Che una persona nel pieno delle sue energie, con una cultura superiore per l’epoca in cui è nato e vissuto, si licenzi da un lavoro sicuro e, a poco più di cinquant’anni, scelga il pensionamento per dedicarsi a una ricerca dagli esiti a dir poco incomprensibili e incerti rappresenta una scelta del tutto in controtendenza rispetto alla filosofia della grande locomotiva del “Nord-est”, che ha forgiato la società veneta a partire dagli anni del secondo dopoguerra e dove l’affermazione “è sempre stato un gran lavoratore” è sinonimo di brava persona, o “si è fatto da solo” implica l’aver raggiunto un ragguardevole e invidiabile benessere materiale.

I riconoscimenti nel filone dei “Costruttori di Babele”

Accanto a questo comportamento diffuso, esistono però, per fortuna, dei casi straordinari. Persone che fanno scelte radicalmente opposte, persone che potremmo definire dei ‘resistenti della forma’” scrive sempre Daniela Rosi nel suo saggio La forma salvata, pubblicato nel volume collettaneo Costruttori di Babele (Elèuthera, 2011), curato da Gabriele Mina, il maggiore studioso italiano del fenomeno degli, appunto, “Costruttori di Babele”. Ve ne sono decine in tutta Italia, oltre che all’estero, ma le loro creazioni sono in pericolo proprio per l’essere così effimere e lontane da qualsiasi stile già visto, per la loro unicità: “Spesso durano fino a che vive il loro artefice” sottolinea Rosi. Eppure, nel caso di Lineri, è possibile che ciò non accada: la stessa Rosi è riuscita a portare le pietre di Lineri in esposizione in luoghi prestigiosi come l’Halle de Saint Pierre, tempio internazionale dell’art brut a Parigi, o in mostre collettive, assieme ad Antonio Ligabue e Carlo Zinelli, mentre l’Università di Vienna ha dedicato degli studi alla sua opera.

Un elemento che raffigura un viso umano

Un elemento che raffigura un viso umano

Rodolfo Hernandez

La ricerca di Lineri è frutto di una conoscenza dell’arte greca antica e delle civiltà preistoriche. Partendo da una passione per le selci o pietre focaie che si trovano nei monti Lessini, ampiamente utilizzate fin dal XVIII secolo nell’industria delle armi, l’attenzione di Lineri viene rapita da una lama di selce bianca che aveva l’aspetto di un coltello: “Ho come avuto un brivido: ‘chi ha fatto una cosa così bella?’ mi sono chiesto. Ho iniziato quindi a leggere e a studiare in modo approfondito il greco e la storia e l’archeologia classica”. Nato come poeta dialettale – nel 1968 vince anche il Premio Castello di Sanguinetto, dedicato alla letteratura per ragazzi, dove Gianni Rodari venne invece premiato per la categoria “Racconto” – Lineri legge in queste pietre “una grammatica interiore, un poema tridimensionale”. Sempre nel 1968, quando Lineri si dedicava ancora prevalentemente alla poesia e alla pittura su ceramica, l’Adige viene sbarrato a pochi chilometri prima di Zevio, lasciando il livello del fiume più basso. “Allora, vincendo i miei pregiudizi, sono entrato nel fiume, e ho visto come quella forma con questo taglio così netto si ripeteva. Ho visto poi l’orecchio pendulo di una testa di animale, di una pecora, di un toro o di un uccello acquatico, di un’anatra, di una papera e poi di elementi umani come l’occhio, la narice-bocca e i simboli della fisicità maschile e femminile. Tutto questo è stata una fatica inspiegabile, ma non so se mi resterà”.

Una pietra la cui forma evoca un volto umano naso occhi bocca mento e fronte

Una pietra la cui forma evoca un volto umano: naso, occhi, bocca, mento e fronte

Rodolfo Hernandez

Il tema del “Che cosa ne sarà?

Infatti, il problema di questo tipo di lavoro è anche l’appartenenza delle pietre, che sono state prelevate da terreni demaniali e, dunque, di proprietà dello Stato. Ma come non pensare che dietro a questo lavoro così dispendioso e sofferto non vi sia altro che un reale e disinteressato intento artistico: “Io amo il mistero della vita, il sacrificio che c’è stato prima di noi. La mia ‘teoria’ è fatta di intuito artistico. Non posso nemmeno immaginare che qualcuno, guardando queste pietre, continui a dire che è stata la natura. È come se il mondo dialettale mi avesse passato questo dono che ora espongo: chi entra qui vede forse il caos, ma la vita è caos, non è ‘soggetto, predicato, complemento’. Forse è stata la natura, eppure, io lo ritengo un intervento umano combinato alla natura perché per me non è casuale che sei, sette, dieci pietre ripetano la stessa forma”.

Una raccolta di pietre dall'installazione di Luigi Lineri

Una raccolta di pietre dall’installazione di Luigi Lineri

Rodolfo Hernandez

Alla domanda che Wired ha posto al protagonista di questa storia così singolare (singulair vengono peraltro definiti in Francia gli artisti dell’art brut), se tutto questo sarebbe stato possibile se fosse vissuto da un’altra parte, la risposta è stata: “La domanda me la sono posta più volte io stesso, ma sarebbe stato uguale perché le coordinate della mia esistenza sarebbero state identiche in tutti i momenti. Non ho che il mio sguardo e una delle mie caratteristiche è quella di oltrepassare ciò che appare. Non mi piace la facilità. Quando ho iniziato la ricerca, qui a Zevio c’era pieno di cave di ghiaia, ero circondato da camion e ruspe. Io ho salvate queste pietre, ma adesso dovrei riportare tutto in Adige. Eppure, questa ricerca, sono certo, è molto più grande di me, è molto più ampia e dovrebbe essere vista come opera d’arte unica”.

Un fiume, l’Adige, che, come molti della Pianura Padana, soffre di eccessivo sfruttamento, a partire proprio dalle cave di ghiaia, ma anche di inquinamento da Pfas, scarichi fognari e pesticidi. Anche la forza evocativa dell’opera di Lineri dovrebbe essere un monito alla salvaguardia dell’ambiente che l’ha resa possibile.



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Scritto da Flavio Perrone, consulente informatico e appassionato di tecnologia e lifestyle. Con una carriera che abbraccia più di tre decenni, Flavio offre una prospettiva unica e informata su come la tecnologia può migliorare la nostra vita quotidiana.

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