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venerdì, Ott 11

L’umanesimo tecnologico salverà il giornalismo nell’era dell’Ai


Lo sostiene Francesco Marconi, esperto di tecnologie e giornalismo, che ospite di Intesa Sanpaolo a Torino ha parlato di presente e futuro dello storytelling, in un mondo in cui gli algoritmi libereranno e non sostituiranno la creatività umana

Qual è il futuro del giornalismo – e più in generale dello storytelling – nell’era dell’intelligenza artificiale? Di questo e delle tante sfide che l’editoria sta affrontando si è parlato durante l’incontro organizzato da Intesa Sanpaolo nel grattacielo di Torino, proprio dove ha sede anche Intesa Sanpaolo Innovation Center, la struttura del gruppo che studia intelligenza artificiale, neuroscienze e, in generale, le innovazioni che coinvolgono banche, imprese e clienti. Ospite d’eccezione del palinsesto di Immaginare il futuro. Conversazioni sui grandi cambiamenti e le sfide del domani è stato Francesco Marconi, responsabile ricerca e sviluppo del Wall Street Journal e ricercatore affiliato del Mit alla Columbia University’s Tow Center for Digital Journalism.

Marconi, che da anni si occupa di tecnologie, automazione e artificial intelligence, si è concentrato sulle sfide che gli algoritmi e il loro utilizzo creano a più livelli nella società  contemporanea: dal mondo dell’arte, dove le intelligenze artificiali sono già  in grado di realizzare arte generativa (prodotti di un sistema autonomo in grado di determinare le caratteristiche di un’opera che altrimenti richiederebbe decisioni prese direttamente dall’artista), mettendoci di fronte a domande non secondarie su cosa sia un’opera d’arte, se un prodotto simile possa essere considerato tale e come è percepito dal sistema, fino al mondo dell’informazione.

Oggi, consapevoli o no, siamo circondati dai prodotti di mezzi di comunicazione sintetici: algoritmi che sfruttano informazioni e dati possono generare contenuti editoriali – esattamente come succede nel campo dell’arte generativa con le opere – senza che i fruitori finali siano a conoscenza del fatto che ciò che leggono è stato generato da una macchina. Questo ci pone di fronte a un problema etico-deontologico. Non sul giudizio di merito che possiamo avere rispetto a quei prodotti, quanto sul grado di consapevolezza che dovrà  possedere chi quei contenuti li leggerà e utilizzerà.

L’Ai, nell’editoria come negli altri campi della vita, dovrebbe liberare la creatività degli individui, sollevati e sgravati dal peso di attività  ripetitive, gestite ora da processi di automazione. Sono gli esseri umani a dover manovrare questo processo, dice Marconi, senza alcuna sostituzione. Adottare l’intelligenza artificiale significa creare nuove esperienze di lavoro e nuove professionalità, non distruggerle.

Basti pensare alle grandi questioni di cyber-security che l’Ai porta con sé, come nel caso dei deepfakes: il giornalismo tradizionale, con la sua verifica puntale delle fonti, rimane l’unico modo per smascherarli. Le intelligenze artificiali non sono perfette, perché imperfetti, spesso, sono i dati che le hanno generate. Il lavoro del giornalista è cambiato ma non è finito.

Alla base di tutto, della fiducia rispetto ai processi di automazione, sta quello che Marconi chiama Umanesimo tecnologico: l’uomo deve essere al centro degli interessi delle Intelligenze artificiali; questo è l’unico orizzonte possibile. Nel giornalismo si traduce in empatia e fiducia: se siamo in grado di connetterci grazie alla narrazione, l’Ai non potrà  superare il ruolo dei giornalisti. Bisogna rimanere perciò aperti al cambiamento, perché la vera rivoluzione nelle redazioni è culturale più che digitale.

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