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venerdì, Ott 18

L’uomo che ha raccontato l’orrore delle prigioni americane


Il giornalista Shane Bauer ha passato quattro mesi come secondino in un carcere della Louisiana, per poi scrivere American Prison: un resoconto di violenza, mancanza di igiene, crolli psicologici e negazione di diritti. L’abbiamo intervistato

Veduta di una sezione di Alcatraz, New York (foto: ROBYN BECK/AFP/Getty Images)

Che cosa succede realmente in un carcere? In che condizioni vivono i detenuti? Vengono garantiti i diritti costituzionali? “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”, hanno scritto i padri costituenti all’articolo 27. In maniera analoga, anche l’VIII emendamento della costituzione americana prevede che “non devono essere richieste cauzioni o multe troppo elevate o inflitte punizioni eccessive e crudeli”.

Nonostante entrambe le costituzioni si pongano nell’ottica di garantire la dignità dei detenuti, la messa in pratica è, sempre in entrambi i casi, molto lontana dal vedersi realizzata. In l’Associazione Antigone fa da osservatore della situazione carceraria; in America, secondo Shane Bauer, pluripremiato giornalista investigativo della testata indipendente Mother Jones, siamo di fronte alla maggiore emergenza sociale del paese.

American Prison è il libro-inchiesta, non ancora tradotto in in cui Bauer racconta la sua esperienza di quattro mesi come secondino in un carcere della Louisiana gestito dalla Corrections Corporation of America (Ccca, ora CoreCivic). Bauer è stato assunto con il suo vero nome – cercando su Google appare come giornalista investigativo – mostrando da subito le falle delle carceri private americane nella gestione della propria attività. Wired ha incontrato il reporter durante il Festival di Internazionale a Ferrara il 4-6 ottobre scorsi.

Shane Bauer, perché questa spiccata sensibilità verso il tema delle carceri? 

“Ho passato due anni in carcere. Ero in Siria, da poco tempo avevo iniziato a fare il reporter dal Medioriente. Un giorno, assieme ad altri due amici, stavo facendo trekking sul confine tra Iran e Iraq quando fummo arrestati tutti e tre e portati in un carcere iracheno. Di questi due anni, quattro mesi li ho trascorsi in isolamento. Quando venni scarcerato e riuscii a tornare a casa assieme ai miei due amici, nelle carceri americane era in corso un enorme sciopero della fame. In California era molto forte la protesta dei prigionieri condannati all’isolamento, che ci possono rimanere anche per periodi lunghissimi, anche quarant’anni. Ho iniziato a scrivere di questa situazione e ad approfondirla sempre di più: in America c’è il più grande sistema carcerario del mondo – il 25% dei detenuti a livello mondiale è negli Stati Uniti – ed è un problema sociale enorme, il più grande di questo paese. L’aver vissuto personalmente il carcere, mi ha portato investigare sempre più a fondo questo argomento”.

Shane Bauer

Perché è arrivato a scrivere American Prison?

“Dopo aver scritto sul tema delle carceri per alcuni anni, ho iniziato a capire che per un giornalista è estremamente difficile poter avere accesso a un carcere. Il sistema penitenziario cerca di fare in modo che i giornalisti stiano il più lontano possibile, e questo è molto evidente negli Stati Uniti nelle carceri gestite da società private a scopo di lucro. Si tratta di penitenziari che non hanno gli stessi requisiti delle carceri gestite dal sistema federale, che ammette invece un certo grado di accesso da parte del pubblico. Per capire meglio questa situazione, ho deciso di fare una domanda di lavoro. Con grande sorpresa da parte mia, sono stato assunto come guardia in poco tempo. Quando sono entrato nel carcere di Winnfield ho capito che lì c’era davvero una grande storia da raccontare, e questo mi ha portato a studiare la storia e il ruolo delle carceri americane fin dalle sue origini”.

 

Quali sono stati i fatti che l’hanno maggiormente impressionata in questa esperienza?

“Appare evidente che l’obiettivo delle compagnie che gestiscono le prigioni private americane sia abbattere i costi per fare più profitti. Gli stipendi dello staff sono molto bassi, circa 9 dollari all’ora, ovvero poco più di un cameriere di McDonald’s. Per questo motivo, per esempio, le guardie carcerarie vendono droga ai detenuti per guadagnare dei soldi in più. I prigionieri sono molto violenti, anche per la scarsa preparazione dello staff. La situazione sanitaria è un tema enorme per queste compagnie: se un carcerato sta molto male e la Cca manda il detenuto in ospedale, deve poi pagare le cure mediche: ma l’azienda non vuole farlo, ovviamente. Ho infatti incontrato detenuti che avevano perso le gambe a causa della degenerazione di un’infezione in cancrena, persone in gravi condizioni di salute e che avevano assolutamente bisogno di cure mediche, vedersi negare l’assistenza da parte dello stesso personale sanitario a cui erano state affidate.

Le condizioni igienico-sanitarie sono davvero precarie, così come l’assistenza del personale. Inoltre, ci sono pochissimi programmi di riabilitazione dei detenuti e servizi di supporto per l’assistenza psichiatrica. Ho incontrato un uomo che si è suicidato per non essere riuscito ad ottenere il supporto a livello medico-psichiatrico che richiedeva da molto tempo e per il quale aveva intrapreso lo sciopero della fame. Ma questo servizio di cure psichiatriche non esiste nelle prigioni gestite dalla Cca. Quando è morto, pesava circa 32 chilogrammi: la direzione del carcere ha fatto di tutto per coprire il fatto, mettendo in atto molte azioni affinché la notizia non venisse diffusa al di fuori del penitenziario”.

 

Quindi la Cca cerca di fare in modo che quanto avviene nelle sue prigioni non venga portato alla luce?

“Certamente. Ad esempio, in carcere avvengono molti accoltellamenti – i detenuti spesso si costruiscono da soli i coltelli – e nei quattro mesi in cui ho lavorato in carcere ho tenuto il conto di questi episodi. Poiché la Cca è obbligata a redigere un report annuale da consegnare allo stato, ho richiesto al Federal Bureau of Prisons il report di quell’anno: la Cca aveva dichiarato un numero di accoltellamenti annuo che corrispondeva a meno di quello da me rilevato nel corso di soli quattro mesi. Siamo dunque di fronte a una chiara manipolazione dei dati. Le compagnie private non vogliono che lo stato venga a conoscenza di quanto succede davvero nelle loro prigioni”.

 

Ritiene ci siano delle differenze tra quanto accade nelle prigioni gestite dalle compagnie private rispetto alla gestione delle carceri pubbliche?

“Premesso che in America anche le carceri pubbliche sono in pessime condizioni, al pari di quelle private, e quindi non ha molto senso fare un paragone di questo tipo, ci sono delle peculiarità relative alle carceri private legate alla necessità di fare profitti. Per cui, nelle carceri pubbliche, il personale viene seguito sotto il profilo della formazione, viene retribuito meglio, si trovano servizi di cure psichiatriche, sia per i detenuti che per il personale interno, e molti più programmi di riabilitazione rivolti ai detenuti. Tutto ciò non esiste nelle carceri private e, infatti, i detenuti sono molto più violenti nelle carceri privati che in quelle pubbliche”.

 

Sono previsti dei controlli periodici da parte dello Stato sull’operato delle compagnie private che gestiscono carceri?

“Ci dovrebbe essere, ma per quello che ho visto, quando arrivano i controlli, i detenuti vengono messi in condizioni di maggiore stabilità psichica per l’intera durata della visita, ma poi tutto ritorna come prima. Sebbene anche lo stato sappia che le carceri private non sono gestite in maniera corretta, di fatto poi non interviene perché ha bisogno di contenere i costi legati alle detenzioni e le carceri private sono molto più economiche di quelle pubbliche”.

 

Quali sono state le conseguenze sulle sue condizioni di salute dopo questa esperienza come guardia carceraria?

“Durante i quattro mesi trascorsi in carcere, ho assistito a una trasformazione di me stesso sotto il profilo psicologico. È vero che ero arrivato lì per vedere che cosa accadeva realmente, ma ero a tutti gli effetti un secondino e, quindi, dovevo entrare completamente in questa dimensione. È stato molto difficile per me: sono diventato molto più autoritario, dovevo esercitare il mio potere sui carcerati, dovevo punirli anche fisicamente ed è stato estremamente complesso riuscire a controllare il mio equilibrio emotivo e psicologico in questa situazione. Questo è quello che, in assoluto, mi ha messo più alla prova e che mi ha segnato molto a livello personale. Una volta conclusa questa esperienza, e rientrato nel mio ambiente quotidiano, non è stato facile ritornare alla normalità: molte guardie carcerarie si suicidano, in percentuale molto più elevata dei soldati americani. Il carcere, quindi, è un ambiente distruttivo non solo per i detenuti ma anche per lo staff che ci lavora”.

 

Che tipo di esperienza giornalistica è stata la sua? La suggerirebbe ad altri che vogliono produrre contenuti giornalistici di qualità?

“Il giornalismo sotto copertura è, oggi, poco diffuso in America, lo è stato maggiormente in passato. Ora i giornalisti hanno paura a intraprendere questo tipo di indagini perché potrebbero essere perseguiti penalmente da parte delle aziende o delle istituzioni e dovrebbero assumersi la responsabilità di gestire delle informazioni estremamente delicate. Non posso permettermi di suggerire ad altri di intraprendere un’esperienza analoga alla mia, che richiede un coinvolgimento totale della propria vita. Un giornalista, prima di fare questa scelta, deve sentire il suo progetto come la missione della propria esistenza, con tutti i rischi connessi. Tuttavia, è fondamentale sottolineare come in America sia sempre più difficile accedere alle informazioni di istituzioni molto potenti ed è per questo che il metodo tradizionale di fare giornalismo non funziona: se non puoi avere accesso alle informazioni non puoi scrivere e documentare e credo che, in questi casi, altri metodi di fare giornalismo siano più appropriati. Nel mio caso, la scelta che ho fatto lo è stata”.

 

Ci sono stati dei cambiamenti nel mondo carcerario dopo l’avvento dell’era Trump?

“Complessivamente non è cambiato molto, ma alla fine della presidenza di Barack Obama, venne dichiarato che non ci sarebbero mai più state carceri private, ovvero che i contratti con le companies come la Cca non sarebbero stati rinnovati. Quando Obama dichiarò questo, le azioni delle due maggiori aziende che gestiscono carceri in America, quotate in borsa, sono cadute a picco, perdendo la metà del loro valore nell’arco di un giorno. Il giorno in cui Trump si insediò alla Casa Bianca, le azioni di queste due compagnie scalarono il mercato azionario, raggiungendo il valore in assoluto più alto di tutte le altre aziende quotate al Nyse Mkt. Gli investitori sapevano che Trump avrebbe adottato una linea molto dura nella gestione dell’immigrazione e le compagnie private gestiscono la maggior parte delle prigioni dove arrivano detenuti immigrati. Trump cancellò immediatamente le decisioni prese da Obama e ora queste aziende sono molto più forti e solide di quanto lo fossero in precedenza. Basti pensare che il Ceo dell’azienda per cui ho lavorato, Damon T. Hininger, ha dichiarato agli investitori che l’arrivo di Trump è stato per la CoreCivic un fatto di assoluta positività”.

 

Che cosa dovrebbe cambiare nella nostra società perché cambino anche le modalità con cui sono gestite le carceri?

“Io sono convinto che le carceri private andrebbero abolite, ed è un’idea piuttosto condivisa. Il motivo della loro esistenza è il fatto che abbiamo moltissime persone in carcere: più di due milioni di persone negli Stati Uniti sono in carcere, quindi un costo molto elevato da sostenere per lo Stato. Per affrontare il problema alla radice, dovrebbero esserci molte meno persone che vengono condannate alla detenzione, ma questo aspetto ha molte sfaccettature che riguardano sia la durata della pena sia l’enorme potere che è nelle mani dei pubblici ministeri americani.

L’accusa, in genere, vuole arrivare a un processo per intentare causa a chi viene ritenuto colpevole di un reato, anche attraverso il ricatto. Per esempio, all’accusato di un reato di furto viene prospettata una pena dimezzata nel caso accetti di sottoporsi a processo: quindici anni anziché trenta. Quindi, molte persone accettano di andare a processo, anche se si tratta, alla fine, di una prospettiva di sentenza ugualmente molto lunga. Per questo motivo sono convinto che il potere dei pubblici ministeri debba essere ridimensionato. In molti stati le pene per lo spaccio di droga prevedono sentenze minime di anni di detenzione molto elevate e questo andrebbe sicuramente rivisto. Il problema delle carceri affonda nelle tematiche più profonde della nostra società, in primis il razzismo e su come noi gestiamo il problema della criminalità. Una volta rivisti questi temi rispetto alla gestione attuale, automaticamente il numero delle persone incarcerate diminuirebbe”.

 

Ci sono stati dei miglioramenti nella riabilitazione dei detenuti negli Stati Uniti negli ultimi anni?

“Sì, possiamo dire che qualcosa sta cambiando, soprattutto per i reati legati allo spaccio di droga. I detenuti accusati di spaccio, che solitamente utilizzano queste sostanze, vengono assegnati a programmi di riabilitazione specifici con una minore permanenza in carcere. Questo sembra aver già dato degli effetti positivi. Inoltre, molti politici repubblicani sono a favore di questi programmi perché consentono di risparmiare denaro pubblico”.

 

Dopo questa esperienza, che cosa si sentirebbe di dire a dei detenuti affinché riescano a cambiare il loro percorso di vita?

“La maggior parte dei detenuti americani vengono rilasciati, ma il carcere non è un luogo dove una persona possa ricostruire sé stessa e la propria vita. I detenuti da me conosciuti che sono riusciti a cambiare vita hanno sempre ammesso che ce l’hanno fatta perché hanno deciso di prendere in mano la propria vita, impegnandosi con tutta la propria volontà a raggiungere un cambiamento. È una decisione profonda e personale, che riguarda unicamente l’individuo. Abbiamo esperienze in cui dei detenuti hanno preso delle iniziative per promuovere, per sé stessi ma anche per altri, un cambiamento radicale della propria vita.

Questo significa che se i detenuti decidono di organizzarsi collettivamente, con degli obiettivi di “auto-rieducazione” i risultati possono essere sorprendenti. Ad esempio, per me è stato un onore poter partecipare durante il Festival di Internazionale a Ferrara a un incontro con Earlonne Woods e Nigel Poor, autori del podcast Ear Hustle. Earlonne è un ex detenuto di colore che, grazie all’aiuto dell’artista Nagel Poor, che da anni lavora con i detenuti a titolo volontario, ha scoperto nel mondo dei podcast la via per cambiare la sua vita. Le sue capacità gli hanno fatto vincere uno dei premi più importanti nel mondo dei podcast, con Ear Hustle appunto, valendogli una riduzione della pena. Quindi, la collaborazione e la solidarietà tra detenuti è importante, ed è una potenzialità che deve essere incoraggiata e gestita in modo intelligente”.
Che cosa pensa della situazione carceraria italiana?

“Ammetto che non conosco nel dettaglio quanto avvenga in Italia. So che ci sono circa 70mila detenuti e, facendo un raffronto con gli Stati Uniti, il numero dei detenuti nelle carceri americani è sette volte maggiore che in Italia rispetto alla popolazione dei due paesi. Con questo non voglio dire che la situazione delle carceri italiane sia migliore, ma è un raffronto che fa perlomeno capire quanto il sistema carcerario americano sia davvero molto lontano rispetto al vostro paese”.

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