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sabato, Giu 22

Makkox: “Coi vecchi politici mi divertivo tanto, con questi mi diverto troppo”


Abbiamo intervistato il fumettista e autore di Propaganda Live che sarà al Festival di satira politica di Forte dei Marmi: ci ha raccontato quel che lo preoccupa di ciò che disegna ogni giorno

Makkox (foto: Giacomo Maestri)

Da poco meno di 50 anni, il Premio di satira politica di Forte dei Marmi premia l’eccellenza degli scrittori, umoristi, giornalisti, disegnatori e comici : dalla prima edizione in Versilia sono passati Achille Campanile, Cesare Zavattini, Roberto Benigni, Zerocalcare, Leonardo Sciascia e tanti altri nomi della crème della nostra produzione culturale. E da quest’anno l’appuntamento raddoppia con una manifestazione in programma dal 9 al 13 luglio prossimi, il Festival di satira politica. Tra i tanti ospiti della kermesse ci sarà anche Makkox, al secolo Marco Dambrosio, disegnatore, fumettista, autore televisivo (in onda su La7 con Propagande Live, al fianco di Zoro) e superstar dell’umorismo. A lui abbiamo chiesto di raccontarci un po’ del suo lavoro, e come vede il paese che disegna ogni giorno.

Iniziamo con la domanda da 1 milione di dollari, dato che siamo qui a margine di un Festival della satira. Cos’è la satira, per te? 

“Ah, vogliamo renderla subito impegnativa [ride]. Beh, ognuno c’ha la propria idea, di satira. Quella che va per la maggiore è di un’attività di contrasto al potere, una forma di combattimento, insomma: ha una funzione sociale un po’ pesa.

“La mia idea geniale è stata tirarmi fuori da tutti questi ambiziosissimi discorsi e fare umorismo; altrimenti tutti ti cagano il cazzo. Fine del discorso. Per com’è concepita, la satira manca di leggerezza. Chi la fa e chi la legge vuole l’impegno e la militanza, è questo che ci si aspetta, unito a una totale mancanza di dubbi. E io questo non ce l’ho”.

Come hai iniziato, e con quali influenze?

“Ho iniziato coi miei disegni umoristici ai tempi della scuola: disegnavo sui diari, sul banco, sul muro, quel tipo di cose lì. Ma anche allora non erano disegni militanti. All’epoca leggevo di tutto, dai Bonelli a Il Male, Pazienza… c’erano tanti fumetti, avevi l’imbarazzo della scelta. E disegnando ti avvicini a quel mondo, è una cosa istintiva.

“Poi però mi sono messo a lavorare, facendo tutt’altro: sai quando si dice ho sempre voluto fare questo, ho sempre sperato di riuscire? Ecco, io speravo di pagare l’affitto, non di disegnare. Il disegno di per sé non l’ho mai puntato, era una cosa che facevo negli interstizi, come dire. Ho fatto piccole cose di grafica, quello sì. Ma un disegnatore? No, non ho mai pensato che avrei potuto diventarlo, finché poi lo sono diventato”.

In una nota editoriale ne L’antichissimo mondo di B.C., le strisce di Johnny Hart pubblicate per la prima volta nella collana degli autori stranieri di Mondadori nel 1965, c’era scritto: “Un narratore che usa le strisce invece dei paragrafi, che disegna i suoi personaggi invece di descriverli, non può essere ignorato per un puntiglio meramente formale”. La cosa fece molto discutere: “Narratore”? Un fumettista? Cinquant’anni dopo, secondo te il fumetto ha ancora della strada da fare per essere considerato al di fuori del suo mondo?

“Quella strada l’hanno già fatta, secondo me: ormai sono già considerati. Pensa a Doonesbury, a quel tipo di strisce, che je vuoi di’? Il graphic journalism è stata la chiave per fare il salto, abbiamo avuto – recentemente – fumetti che vincono il Pulitzer. Pensa anche all’ con Zerocalcare presentato al premio Strega: insomma, il fumetto la sua autorevolezza l’ha conquistata, anche se qui da noi è più difficile, siamo sempre indietro. Nello specifico perché manca quella pluralità di cui questo mondo si nutre. E poi vabbè, non ci sono i quattrini e il pubblico, due cose fondamentali per espandersi.

Quali sono i colleghi – italiani e internazionali – di cui apprezzi maggiormente il lavoro?

“Beh, Gipi sta da un’altra parte: ha una sua poetica inarrivabile, oltre a una capacità tecnica fuori dal comune, con un segno riconoscibile e riconosciuto nel mondo. Tra gli altri, sicuramente anche Paolo Bacilieri è un altro nome di quelli che entrano come casi che si studiano a scuola. Al di fuori di questi, ci sono tanti autori tecnicamente bravi, che però non hanno quell’aura da Autore, con la maiuscola, che rende un fumettista parte integrante della storia del fumetto (pensa a Crepax, a Pratt: persone che non si sono limitate a seguire un sentiero già tracciato da altri, ma hanno inventato mondi tutti loro)”.

Nel 2011, poco prima di renderlo il protagonista del tuo libro The full Monti, hai scritto di esserti divertito più con Monti che con Berlusconi. Quindi non resta che chiederti: col governo del cambiamento quanto ti stai divertendo?

“Pure troppo. Con Berlusconi, al tempo, pensavi di aver toccato l’apice; Monti aveva quella sua qualità imprevista, un po’ alla Luciano Salce; Renzi, beh, un altro comico. Ma quelli erano altri tempi: adesso non c’è più bisogno di lavorazione del prodotto. Non c’è più filtro. Ma la cosa davvero preoccupante è che, nonostante tutto, non vedo quelli intorno a me che ridono: è questo che mi spaventa. È come se avesse vinto il clown di It, eppure nessuno è preoccupato, nessuno ride”.

Chi è il personaggio più preoccupante di queste strisce del cambiamento?

“Certamente Salvini, quello che dovrebbe far ridere in maniera sguaiata. Dice cose talmente grottesche e cattive! È come quel personaggio di Albanese, no?, Cetto La Qualunque, che istigava alla risata dicendo cose enormi; invece lui, Salvini, se ne esce con frasi di una crudeltà inaudita e tanti non alzano nemmeno un sopracciglio. Lui non è la Meloni, per dirne una, quel tipo di politico che ha ancora del comico involontario, che fa ancora ridere: Salvini viene preso sul serio. E quando va in giro col rosario in mano e lo bacia, tu dovresti buttarti per terra dal ridere. Ma non lo fai, non più. E questo mi terrorizza.

“L’opposizione, per assurdo che può sembrare, ormai la sta facendo Papa Francesco, in giro vedo la gente con Avvenire sotto braccio, e Salvini è diventato una specie di contro-Papa leghista, il Papa Verde. Mi ricorda Enrico VIII, nel modo in cui vuole diventare un riferimento religioso. È un aspirante ayatollah, e questa è una cosa di una pericolosità inaudita, di cui nemmeno ci stiamo accorgendo.

“E il Pd, come risponde? Con Zingaretti?”

(foto: Giacomo Maestri)

Già, già. E a proposito di tutti questi personaggi: rileggendo le tue vecchie storie pubblicate sul web negli ultimi 10 anni – più o meno – l’impressione è che formino una sorta di racconto unitario. Che racconto è, secondo te? Come ne esce il nostro paese?

“Non ne esce bene. Quando riguardo le cose vecchie che ho fatto mi accorgo che c’è una stata una discesa a precipizio, perché le cose che prima facevano ridere ora non fanno nemmeno il solletico. Le riguardo e penso: davvero prima ci lamentavamo di questo? Davvero ho fatto una vignetta su questa cosa? Oggi sarebbe ordinaria amministrazione, sarebbe derubricato. Oggi cominci a dire: mamma mia, che statista Rotondi! D’altronde lo stesso Berlusconi non era arrivato a tutto questo, per quanto gli abbia preparato il terreno. Ma non si è mai proposto come Papa, per dire, se non in qualche sua battuta. Non ha mai raggiunto la trivialità di questi qua: la sua era un’ironia ancora paradossalmente alta, almeno per certi versi, una roba anni Ottanta. Poi, il precipizio”.

Sì, ci abbiamo preso gusto, diciamo. Invece, com’è nato il tuo rapporto con Diego Bianchi aka Zoro, e com’è oggi il vostro processo creativo?

“Beh, calcola che Zoro era già un blogger abbastanza noto, e anch’io bloggavo (si diceva al tempo), ci si conosceva, un paio di volte ci siamo anche incontrati a Roma… Poi ero stato coinvolto da Luca Bizzari a collaborare con lui come autore, ma Mediaset, o meglio quell’atmosfera lì, non mi era piaciuta, non mi ero trovato bene. Da questo però, qualche tempo dopo, mi è arrivata una chiamata di Diego che mi diceva: “Ho in piedi un progetto per un programma tv, ti va di partecipare?”. Da lì è nato Gazebo, e il resto lo sapete.

“Ancora oggi a far funzionare tutto è lui, la parte centrale del programma è indiscutibilmente il suo pezzo: insomma, è Zoro che fa la differenza, a Propaganda Live. Con lui ci confrontiamo su tutto, ma in modo molto tranquillo ed easy; la cosa bella della trasmissione – quella che funziona – è che ognuno pensa al suo, senza grossi problemi. È una macchina oliata. E ancora oggi, quando gli faccio vedere tutta la parte iniziale del mio video coi disegni, lui ride e mi dà consigli, “potremmo fare questo o quest’altro”. Siamo un gruppo.

“Nelle riunioni ci scambiamo quel che abbiamo in mano, e poi il venerdì facciamo un recap generale prima della diretta. Per me andare in diretta è essenziale: ho sempre voluto fare cose live, e lo stesso vale per Zoro. Non è un caso che tutto questo nasce da spettacoli che io e lui avevamo fatto in piazza, che abbiamo voluto rendere un programma. Nella televisione mainstream, diciamo, hai il pubblico dietro – diventa una specie di coro greco – mentre nel live te lo trovi davanti, lo vedi, c’è uno scambio e un feedback immediato. Banalmente: da noi la gente ride, sai se sta apprezzando o meno. È un’esperienza diversa, anche perché in tv, invece, che riscontro hai? Quello dei tuoi autori che fanno pollice in alto di fronte a una certa scena. Ah, beh”.

Ai tempi del primo successo di Zerocalcare definisti il web “il suo primo è più efficace editore”: 8 anni dopo, daresti ancora lo stesso consiglio a un fumettista?

“Identico! L’ho dato a lui stesso al tempo, dicendogli: “Senti, Miche’, apriamo un bel blog: facciamo i numeroni. Tu sei un talento, senza dubbio; se arrivi direttamente ai lettori, vedrai che poi gli editori se ne accorgono”.

“Il problema è che l’Italia è diventato un paese di rincoglioniti; quello che è uscito dalla guerra traboccante di genialità e voglia di fare, poi ha subìto un’involuzione fino ad assumere la forma della massa di coglioni. Oggi non vedo nessuno che si mette in gioco con la stessa qualità, con la stessa dedizione: guardano Zerocalcare come se avesse vinto alla lotteria. E poi li vedi fare in 80mila il concorso per diventare navigator e dici: ma che cazzo. Anch’io, nel mio piccolo, mi sono fatto un mazzo tanto, e oggi ho la gente che mi scrive e mi dice “aò, ma quando finisci tu che succede?”. Manca proprio l’iniziativa, si preferisce vivere sulle spalle degli altri e aspettare il salvatore”.

Parli del mondo del fumetto? Oppure…

“Quello non lo frequento molto – mi piace più il cinema del fumetto – ed è un mondo molto di nicchia, con impallinati che si occupano quasi solo delle loro questioni interne. Ma è in generale, nella nostra società, che c’è rabbia o invidia per chi ce l’ha fatta, come se fosse una possibilità preclusa agli altri. Lo noti anche in quel canto di morte continuo che sono i social, uno sfogone collettivo in cui additare i presunti colpevoli della tua vita de mmerda”.

Ecco, parliamo un po’ di questi benedetti social.

“Hanno il pregio di farti vedere le cose come sono. Io vado su Facebook per capire com’è l’Italia. E per farlo – per capirlo – secondo me devi farti 8 mesi su Facebook. Pure l’Istat dovrebbe: rabbia, desideri, dolori. È tutto lì. Il problema dell’Italia è che Twitter ha perso il contatto con Facebook. Vedo un terrore del futuro, del presente… di tutto”.

Secondo te quel terrore è un segno distintivo di quest’epoca?

“Beh, sì. Negli anni Ottanta, il momento d’oro nel nostro immaginario nazionale, il lavoro era ovunque, l’ottimismo la faceva da padrone, eccetera. Non c’era il problema dell’immigrazione… ma poi diciamocelo, che cazzo de “problema” è? Il vero problema è l’emigrazione, non l’immigrazione. Anche e soprattutto quella delle aziende che chiudono i battenti. Di recente con Guido Maria Brera e Edoardo Nesi abbiamo fatto uno spettacolo in cui mostravamo al pubblico le aziende italiane vendute o finite in bancarotta negli ultimi anni: la gente in platea sbiancava, sembrava di vedere un elenco dei morti”.

Stai dicendo che il problema del “terrore” che stiamo vivendo, o meglio la sua origine, è economico?

“Assolutamente sì. L’Italia è diventata povera, e di colpo ci siamo trovati ad appassionarci a temi idioti tipo la casta, quanto spendono i politici, se si spostano in macchina… Quando leggo polemiche del genere mi viene da dire: ma noi siamo il paese delle macchine, idioti! I politici devono andare in giro in Ferrari, altroché. Il punto sai qual è? Che la gente è incazzata perché si è impoverita, ed è come coi cani che ringhiano e devono addentare l’osso di gomma. Ecco, l’Italia del 2019 addenta di tutto”.

Beh, ma prima o poi gli invotabili da votare finiranno…

“Non ci giurerei, eh. E poi guarda, lo dicevo l’altro giorno sul Foglio: io non voglio prendermela con quelli che sono finiti lì; a me interessa andare contro quelli che ce li hanno messi. Altrimenti sarà sempre un tornare al problema a monte. Ma il problema – ormai è chiaro – è il cane, mica l’osso di gomma”.

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