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giovedì, Dic 03

Mank, un affresco in bianco e nero sulla Hollywood degli anni ’30



Da Wired.it :

Fincher tenta il film della vita ma manca il bersaglio: raccontando la storia dietro Quarto potere, ci regala qualche scena di grande cinema annacquata in due ore e più di noia

Ci sono anche le finte bruciature della pellicola! Tutto ha ricreato David Fincher per fingere che il suo Mank sia un film degli anni ‘40 che racconta una storia degli anni ‘40 e nello specifico quella della lotta creativa per scrivere Quarto potere. La colonna sonora in stile, le luci come quelle del film in questione, gli ambienti, addirittura i suoni e le immagini digitali rovinate per sembrare in pellicola più una valanga di citazioni. Ma non ce l’ha fatta. Mank è irrimediabilmente un film moderno mascherato da film d’epoca, che racconta della Hollywood mitologica e che lo fa per mettere in scena un uomo che si distrugge e distrugge la propria carriera per fare qualcosa di valevole una volta nella vita.

È un buon film Mank (con grandi possibilità agli Oscar), nella carriera di moltissimi registi sarebbe la punta più alta ma non in quella di David Fincher (regista di The Social Network, Se7en e Zodiac). Prodotto da Netflix, in un bianco e nero curatissimo non diverso da quello di Roma di Alfonso Cuaron, è un film lungo e largo, senza limiti e desideroso di avere dentro di sé tutto. Anche troppo. L’apice della gloria, la grandezza degli studios e la cattiveria dei produttori, una donna che non risponde al proprio stereotipo e la revisione del mito di Orson Welles, ma anche la cialtroneria del cinema e la sua grandezza intrinseca. Soprattutto ha dentro di sé la politica dell’epoca e quindi quella di oggi, un’elezione condizionata da notizie false (ricorda qualcuno?) durante la vera corsa a governatore della California della fine degli anni ‘30, quella pilotatissima dal magnate della stampa Hearst con l’appoggio della Metro Goldwyn Mayer, che realizzò mini film diffamatori contro il candidato socialista.

Proprio Hearst sarà poi il protagonista (con un altro nome) del film scritto dal protagonista, per l’appunto Quarto potere, un’opera che prendeva di petto l’uomo più potente d’America e lo faceva senza pietà, rendendolo il simbolo di ciò che non va, di un’umanità disperata, che ha perso tutto quel che di caro aveva e non si fermava davanti a niente. Quel film scritto da Hermann J. Mankiewicz e Orson Welles, è sempre stato attribuito più che altro al secondo (che l’ha anche diretto e interpretato) mentre, dice David Fincher (e non solo), è stato uno sforzo incredibile del primo, questo sceneggiatore interpretato benissimo da Gary Oldman (anche se c’è una differenza d’età di 20 anni tra i due), un uomo che scriveva filmacci di serie B ed era costantemente ubriaco.

Proprio come in Quarto potere vediamo la storia in flashback, Mankiewicz è stato spedito in una location isolata dove non può bere per scrivere, da lì saltiamo indietro al racconto dei suoi ultimi anni, la frequentazione con Hearst e la testimonianza della degenerazione del potere politico dentro Hollywood. Vite che vengono distrutte davanti ai suoi occhi, persone sfruttate, un potere inattaccabile e così meschino da smuovere il cuore anche di questo sceneggiatore da 4 soldi, cinico e beone, che diventa invece risoluto e determinato per scrivere quello che passerà alla storia (sicuramente americana) come il film più grande di sempre.

Ed è divertente che in questo film (anche un po’ troppo lungo) Fincher descriva l’età dell’oro di Hollywood come un susseguirsi di cialtronerie, cinema fatto da individui biechi a cui interessa pochissimo l’esito artistico o anche solo la realizzazione di qualcosa di buono. Non è insomma l’Ed Wood di Tim Burton, che era convinto di fare qualcosa di fantastico e sempre entusiasta mentre realizzava film orrendi, ma il classico scrittore cinico e disilluso che non crede in niente e partorisce trame dozzinali all’impronta senza curarsene. In tutta l’industria del cinema proprio non c’è niente di buono, Mank è una demolizione di quel mito dorato. La Hollywood degli anni ‘30 non ha nulla di professionale, nulla di artistico, nulla di eccezionale e anzi tutto di mondano, squallido e profittatore. Un’industria in cui si curano interessi personali senza riguardi e al servizio dei potenti di turno.

Purtroppo, dopo un’introduzione fantastica, troppo a lungo Mank cincischia usando male le sue due ore. E la perfezione impressionante delle immagini che Fincher mette sullo schermo (eccezionale la passeggiata tra Mank e la fidanzata giovane e bella di Hearst nel loro giardino delle meraviglie illuminati dalla Luna!) non riesce a supplire. Perché quando Mank acchiappa, quando aggancia lo spettatore davvero, è una meraviglia. È capace di saltare tra presente e passato in modi strani e inattesi ma significativi, descrive molto bene il potere nella sua forma più pura, usa e sfrutta il mito di Welles per la rinascita idealista di Mankiewicz, un uomo distrutto dalla vita e da se stesso che riesce ritrovarsi fuori casa, in una residenza desolata, grazie ad una sceneggiatura che trasforma nella summa di una vita intera. È Fincher al suo meglio. Peccato che siano solo sprazzi di una produzione sontuosa.

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[Fonte Wired.it]