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sabato, Ott 26

“Meritocrazia”: storia della parola che fa litigare tutti


È apparsa per la prima volta in uno scritto satirico negli anni Cinquanta, e oggi per molti ha un carico ideologico più che scientifico: vuole perpetuare le diseguaglianze

(foto: STF/AFP/Getty Images)

È ritornato prepotente, nel dibattito culturale e politico, un concetto che da qualche tempo sembrava passato di moda: la meritocrazia, intesa come criterio di selezione degli individui da mandare avanti nella società. Ci ha pensato il nuovo partito di Matteo Renzi, alla sua prima presentazione pubblica, a far riesplodere il dibattito. Nell’intervento conclusivo all’ultima edizione della Leopolda, la ministra Teresa Bellanova a un certo punto ha affermato una frase che ha fatto incazzare molti: “A quelli che pensano che tutti possono avere tutto, noi diciamo che il merito è di sinistra ed è il nostro unico parametro di misura”.

Molti tendono a dimenticarlo, ma il termine meritocrazia fu coniato come titolo di un romanzo fantascientifico-satirico, da parte del politico laburista britannico Michael Young. In L’avvento della meritocrazia, scritto nel 1958 ma ambientato nel 2033, si preconizza uno stato dispotico in cui la posizione sociale degli individui viene determinata unicamente dalle loro capacità lavorative e intellettive. Il concetto diventa così il nuovo strumento di dominio delle oligarchie nel XXI secolo, che non tengono più conto dello status sociale di un individuo, dell’ambiente familiare e culturale e si garantiscono così il proprio dominio e riproduzione.

Può essere la meritocrazia il parametro della sinistra che, per definizione, deve occuparsi anche e soprattutto degli ultimi e di chi non ce la fa? Pur volendo concedere a Bellanova il dubbio della buona fede, vale la pena ricordare, come aveva già fatto il sindacalista Bruno Trentin nel 2006 sull’Unità, che questo approccio – che presuppone la legittimazione della decisione discrezionale di un governante (sia esso un caporeparto, un capoufficio, un barone universitario o un politico inserito nella macchina di governo) – fosse stato respinto già dall’Illuminismo.

Respinto” perché rischia d’essere una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con forza qualsiasi criterio diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del valore della persona, riconoscendolo come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, ricorda Trentin:

Con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al ‘merito’… ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il ‘sapere fare’, valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale”.

Una curiosità: osservando la frequenza con cui la parola meritocrazia compare nei libri scritti in lingua italiana nell’ultimo secolo, si può notare una linea piatta fino a circa il 1958 (quando la parola viene popolarizzata da Young) per poi crescere fortemente fino al 1980, quando c’è un crollo. Eppure è l’inizio dell’era degli yuppie, nonché della scoperta fatta da Claudio Martelli a un congresso del Partito socialista italiano sulla validità di una società “dei meriti e dei bisogni”.

Ed è un’epoca in cui il potenziale autoritario, o quantomeno antisindacale, della parola era già noto: in Francia, nel 1986, i ferrovieri si battevano contro il governo Chirac per il ritiro della griglia dei salari che affida gli avanzamenti di carriera e di remunerazione a valutazioni di merito anziché, come avveniva prima, alla anzianità. I ferrovieri non volevano sentir parlare di una meritocrazia dietro la quale si nasconderebbe, dicevano, l’arbitrio aziendale.

A partire dal terzo millennio, il centrosinistra di governo – ansioso forse di farsi accettare dagli assetti politici più conservatori e sospettosi – fa riapparire nel suo linguaggio corrente il concetto di meritocrazia, come valore da riscoprire in un contesto culturale dominato dal liberismo conservatore. Si rischia dunque di ripetere quella stessa scelta acritica, mentre la rivoluzione della tecnologia e dell’economia sembra assai meno brillante di allora? Di certo il partito di Renzi e l’area che rappresenta sembrano decisamente minoritari, rispetto agli impeti riformisti della sinistra dalemiana e prodiana di vent’anni fa.

Una vasta schiera di detrattori oggi invece risponde all’uscita di Bellanova ripetendo che il merito, di per sé, è pura ideologia, nel senso più bieco del termine: una falsità scientifica diretta a placare le classi socioeconomiche più sfortunate attribuendo da un lato un senso di giustizia quasi divina a un mondo complesso e imprevedibile; dall’altro giustificando e legittimando la ricchezza e il privilegio delle classi più ricche. È la tesi di molti pensatori: tra gli altri si segnalano, negli ultimi tempi, Mauro Boarelli, autore di Contro l’ideologia del merito (Laterza) e il giurista di Yale Daniel Markovits, il quale in The Meritocracy Trap dice che la meritocrazia non è nient’altro che “un meccanismo per la concentrazione e la trasmissione dinastica di privilegi e risorse da una generazione all’altra”.

Come rammenta lo scrittore Christian Raimo, negli ultimi 10-15 anni, da quando il concetto di merito e di meritocrazia sono diventati mainstream, si è accumulata – in Italia e all’estero – una bibliografia ormai corposa che ne ha smontato molti dei falsi presupposti teorici, che lo rendono un’arma retorica vischiosa e strumentalizzata, da cui molti leader politici si sono allontanati nel tempo (è il caso dell’ex presidente Barack Obama, che ha dovuto rivedere pesantemente il sistema meritocratico della scuola americana, o quello della riforma – sempre scolastica e sempre meritocratica – dell’insegnamento inglese negli anni Novanta).

Il partito renziano, com’era prevedibile, ha scelto di proporsi come l’autentico rappresentante del ceto imprenditoriale e dell’alta borghesia del terziario avanzato – visti come i portatori più genuini dei valori di meritocrazia, di individualismo, di gusto del rischio. Singolare, però, che nel 2019 la ministra Teresa Bellanova si lanci in questo elogio acritico della meritocrazia senza pensare all’accusa di trivializzazione che gli sarebbe arrivata contro: o ha ignorato tutta la discussione politica che c’è stata finora, o chissà, magari punta davvero a far parte di un partito iper-elitista e insulare.

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